Nell’estate del 1959 Ernesto De Martino avviò un’esplorazione etnografica con l’obiettivo di dimostrare che il tarantismo era un fenomeno culturale storico-religioso anziché una malattia somatica o psichiatrica. Con un’équipe composta da un medico, uno psichiatra e uno psicologo, un etnomusicologo, un’antropologa e un assistente sociale, si focalizzò sul territorio salentino per studiare nel dettaglio i comportamenti dei tarantati e ciò che li distingueva dai malati comuni, andando così a tracciare i confini di un approccio metodologico nuovo e senza tempo ancora oggi di grande rilievo nella cultura italiana.
Quando parliamo di terra del rimorso parliamo dell’Italia meridionale, e in modo particolare della Puglia, di quella terra che Salvatore Quasimodo descrisse come una terra spaccata dal sole e dalla solitudine, dove «avara è l’acqua a scendere anche dal cielo e gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti». Una terra rovente in cui dimora «il ragno della follia e dell’assenza» che si impadronisce del sangue di corpi delicati, «che conoscono soltanto il lavoro arido della terra».
In questi luoghi nasce il tarantismo, un fenomeno storico-religioso nato nel Medioevo e protrattosi sino al ‘700 e oltre. Si tratta di un’istituzione religiosa prevalentemente contadina caratterizzata dal ragno che morde e avvelena, e dalla musica, dalla danza e dai colori che esorcizzerebbero la vittima dal morso avvelenato. In questo senso, come spiega l’etnologo Ernesto De Martino, la terra del rimorso è la terra del cattivo passato che torna, rigurgita e opprime col suo rigurgito.
Ernesto De Martino fu ispirato ad approfondire la ricerca sul tema del tarantismo dopo aver visto delle fotografie di André Martin raffiguranti delle scene che ogni anno in estate si svolgevano nella cappella di S. Paolo in Galatina. Nelle fotografie era raffigurata una giovane saltellante su una mensola dell’altare e poi riposante sulla tavola eucaristica, un vecchio disteso, supino e urlante a braccia alzate, e accanto a lui altre giovani donne vestite di bianco, anche loro visibilmente a disagio.
Si tratta di un’istituzione religiosa prevalentemente contadina caratterizzata dal ragno che morde e avvelena, e dalla musica, dalla danza e dai colori che esorcizzerebbero la vittima dal morso avvelenato.
I protagonisti delle fotografie erano «i tarantati», arrivati da diverse zone del Salento, dove nell’intimità dei loro domicili avevano da poco messo in scena un rito peculiare: tramite il vivace simbolismo della musica, della danza e dei colori si erano sottoposti all’esorcismo della taranta, un ragno velenoso il cui morso gettava in un «mortale languore» o in una «disperata agitazione senza orizzonte». Il morso poteva essere interpretato in senso realistico ma anche in senso mitico-rituale: l’esorcismo musicale infatti ricordava la catarsi musicale praticata in antichità in tutta la Grecia, e «le tarantate», scrisse De Martino, «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e tutto quello che costituiva la vita religiosa del mondo antico», caratterizzata da atteggiamenti spesso maniacali e ripetitivi.
La ricerca di De Martino sul campo cominciò nell’estate del 1959, proprio a Galatina, dove con l’équipe di esperti che aveva messo insieme campionò ben trentacinque tarantati, di cui diciannove vennero scelti a caso da visitare successivamente nei loro paesi di provenienza. L’occasione per il campionamento si presentò il 29 giugno, quando i tarantati partivano dai loro paesini d’origine per raggiungere la cappella di S. Paolo, dove potevano ringraziare il Santo della guarigione ottenuta o implorarlo nel caso in cui non fosse ancora arrivata.
In primo luogo, era importante accertarsi che nessuno dei casi coinvolti fosse un caso puramente medico. In caso contrario sarebbe stato inutile proseguire, poiché l’équipe era guidata da uno storico della vita religiosa, certamente incompetente in ambito medico. Si trattava dunque di valutare le due opzioni che la letteratura sul tarantismo aveva fino ad allora proposto come spiegazione alla sintomatologia dei tarantati: la possibilità che fossero stati davvero morsi da un ragno o che si trattasse di un disordine psichico. Una volta stabilito che nessuna di queste due opzioni era realmente considerabile, il fatto che il tarantismo avesse manifestazioni di tipo culturale (immunità di Galatina, ripetizione rituale calenderiale, prevalenza di partecipazione femminile, età del primo morso tracciabile a inizio pubertà) confermava l’esito negativo dell’indagine medica e la teoria che si trattasse di simboli mitico-rituali. Tuttavia, anche se il simbolismo prescindeva dagli episodi di aracnidismo, non si può dire che ne fosse del tutto indipendente. Da una prospettiva mitico-culturale, secondo cui il morso della taranta avvelena nella stagione del raccolto dei frutti estivi e ogni anno torna ad agire per essere poi esorcizzato con musica, danza e colori, l’aracnidismo restava in ogni caso fondamentale per la genealogia del tarantismo.
La terra del rimorso è la terra del cattivo passato che torna, rigurgita e opprime col suo rigurgito.
Per quanto riguarda lo scenario del rito, da più fonti risalenti alla letteratura del ‘500, ‘600 e ‘700, l’esorcismo coreutico-musicale-cromatico, come lo definiva Ernesto De Martino, poteva essere effettuato sia in casa che all’aperto. Veniva prestata particolare attenzione all’ambiente, a volte modificato perché diventasse un vero e proprio spazio sacro. Secondo alcune fonti, nel luogo in cui si doveva danzare venivano posizionate delle conche piene d’acqua addobbate con erbe e rami verdi in piena fioritura, con i quali le vittime si adornavano il capo. I tarantati erano profondamente attratti da quell’acqua, tanto che spesso ci si tuffavano dentro. In alcuni scritti è specificato che le vittime «giovavano alla vista di limpide acque e di fonti artificiali che con soave mormorio scorrevano in un tino apprestato alla bisogna».
Altri oggetti rituali importanti erano le spade, utilizzate per il combattimento messo in scena durante la danza, e gli specchi, nei quali i tarantati fissavano i loro riflessi respirando profondamente. Un altro oggetto particolare utilizzato nei riti era la fune, che solitamente veniva appesa agli alberi – o al soffitto in caso di rito domiciliare – in modo tale che i tarantati potessero imitare il ragno di cui erano vittime, tirando e manovrando i «fili delle loro ragnatele». In più, negli spazi sacri venivano utilizzati altri oggetti che servivano all’abbigliamento dei tarantati, tra cui «bindelle, cateniglie, vesti preziose», poi ancora fazzoletti, scialli, sciarpe e sottane di ogni colore che durante il rito potevano essere selezionati a seconda degli impulsi del malore dei malati. Importante era anche lo stimolo olfattivo: durante i riti i tarantati ogni tanto potevano usufruire di vasi di basilico, di cedrina, di menta e di ruta i quali erano utili, anche se in maniera minore, all’evocazione del male.
Dopo la crisi, ovvero l’imitazione simbolica del comportamento dell’avvelenato, di cui il sintomo prevalente era un profondo senso di tedio nei confronti di sé e delle cose, con improvvisa caduta al suolo in stato di semimorte, gli ammalati rimanevano a terra sino all’inizio della musica. Successivamente, a poco a poco, i sintomi si attenuavano e il malato cominciava a muovere le membra del corpo, che con l’aumentare del ritmo si scatenava sempre più velocemente.
La musica era il simbolo più importante del rito. Dopo la crisi, ovvero l’imitazione simbolica del comportamento dell’avvelenato, di cui il sintomo prevalente era un profondo senso di tedio nei confronti di sé e delle cose, con improvvisa caduta al suolo in stato di semimorte, gli ammalati rimanevano a terra sino all’inizio della musica. Successivamente, a poco a poco, i sintomi si attenuavano e il malato cominciava a muovere le membra del corpo, che con l’aumentare del ritmo si scatenava sempre più velocemente. Le prime danze si protraevano per più ore, e dopo un breve riposo che serviva ad asciugare il sudore e a riprendere le forze, il malato riprendeva a danzare con la stessa veemenza, più volte durante tutta la giornata e per circa cinque giorni, con brevi momenti di ristoro dedicati ai pasti, rigorosamente leggeri.
«Il tarantismo come rito», scrive De Martino evidenziando l’importanza rituale della musica, «è costantemente individuato dalla graduale risoluzione coreutico-musicale di uno stato di crisi dominato dal crollo della presenza individuale, di guisa che se il discorso musicale è interrotto […] il processo di risoluzione subisce automaticamente un arresto e la crisi si riproduce». Durante i rituali, se la musica suonava, il malato rinsaviva dal suo stato di semimorte; quando la musica si fermava, il tarantato ritornava in quello stato di trance da cui cercava di liberarsi. In questo senso, la musica era cruciale nel processo di cura delle vittime, che si dimenavano forsennatamente seguendo il ritmo di tamburelli e violini. A questo proposito, Quasimodo raccontava: «La tarantata si fa ragno, diventa il ragno che è in lei, il suo pensiero si nutre in ritmo puro, e nel movimento quasi meccanico sorgono figure di liberazione, a volte però ancora da ombre disperate. Ora la donna in piedi lotta contro la taranta, immaginando di calpestarla e di ucciderla con il piede che batte la danza. Passo su passo cerca il suo equilibrio spirituale, accerchiando la vertigine su curve musicali sempre più vibranti, fino alla scomparsa dei sensi».
Le tarante erano quindi sensibili alla musica e al ballo, e la melodia cambiava a seconda del loro colore e della loro grandezza. In alcuni casi era importante anche la scelta dello strumento, che veniva determinata caso per caso. I suonatori diventavano esorcisti, medici e artisti, perché dalle loro abilità dipendeva il successo della cura. Altrettanto importante era lo stimolo cromatico: la «mitica taranta», il suo «mitico morso» e il suo «mitico veleno» erano strettamente connessi a «mitici colori» che evocavano specifiche divergenze psichiche. Nel rituale ciascun tarantato sceglieva gli oggetti colorati su cui sfogare le proprie dicotomie emozionali: amore e odio, mania e malinconia.
Tutte queste caratteristiche confluivano nel simbolo della taranta avvelenatrice, che poteva avere diversi aspetti. Reagiva diversamente a ogni melodia, attivandosi solo quando il ritmo le era congeniale, e il suo morso instillava nelle vittime un veleno che durava finché la taranta viveva. L’avvelenatrice mordeva nella stagione estiva, anche se era possibile che gli effetti del morso si ridestassero nell’estate successiva, segno che la taranta era ancora viva. A volte la taranta poteva avere un nome di persona, quale «signora Faustina» o «Caterina», e poteva perfino dare ordini alla vittima e dialogare con lei. Sotto forma di persona assumeva un carattere e delle inclinazioni specifiche: alcune sembravano sollecitare deliri di onnipotenza, altre assumevano invece atteggiamenti molto malinconici. La taranta influenzava il tarantato come un vero e proprio spirito che possedeva e che l’esorcismo controllava.
Durante i rituali, se la musica suonava, il malato rinsaviva dal suo stato di semimorte; quando la musica si fermava, il tarantato ritornava in quello stato di trance da cui cercava di liberarsi.
Secondo De Martino, è lecito parlare del tarantismo come di una «religione del rimorso». In questo contesto il rimorso non va inteso come un ricordo di un brutto passato, ma come un «conflitto irrisolto in cui la presenza individuale è rimasta imprigionata». Poiché si perde tra i ricordi di chi ne soffre, il rimorso si manifesta ripetutamente, con la cadenza calendariale di cui si parlava in precedenza, e con i sintomi travolgenti di una vera e propria nevrosi. Proprio perché il ricordo del primo morso non è permanente si parla di ri-morso, cioè del ripresentarsi di un episodio traumatico del passato per cui non si è trovata alcuna risoluzione.
Quell’oscura tentazione al disordine e al caos di cui parlava Ernesto De Martino, che «serpeggiava nella penisola» ogni anno dal 28 al 30 giugno durante i festeggiamenti dei SS. Pietro e Paolo, non si percepisce più come un periodo di improvvisa lacerazione della quotidianità. Tuttavia, il tarantismo rimane un fenomeno culturale cardine nella cultura e nella tradizione meridionale. «Se la terra del rimorso è la Puglia in quanto patria elettiva del tarantismo», scriveva De Martino per concludere la sua ricerca, «i pellegrini che la visitarono nell’estate del ’59 provenivano da una più vasta terra […] che è bella, perché la vita è bella, almeno nella misura in cui […] è soccorsa dalla vigile memoria del passato e dalla prospettiva dell’avvenire».
A oggi è proprio grazie a quella vigile memoria del passato che possiamo riportare alla luce, seppur in maniera decisamente meno macabra e più festosa, il fenomeno del tarantismo. Il 24 agosto di ogni anno nelle terre del Salento viene infatti celebrata La Notte della Taranta, un festival di musica popolare che nacque nel 1998 e che da allora ripropone ai pugliesi e a pellegrini italiani e stranieri la cultura e la tradizione salentine, fondendole con altre tradizioni provenienti da tutto il mondo.