Visioni di natura

La natura come cadavere dell’idea o come pura vita scatenata: un’indagine sulle tensioni filosofiche tra necessità, contingenza e libertà, con lo sguardo di Hegel e la luce delle percezioni psichedeliche.

da Quants n. 18 (2025)

«La carne non è mai completamente opaca; l’anima si mostra attraverso le pareti del suo ricettacolo» (Aldous Huxley).

Negli ultimi settant’anni l’idea occidentale di natura è fortemente mutata. Non sto parlando dei vari passaggi di paradigma che hanno accompagnato il percorso che va dalla filosofia della Natura con la “N” maiuscola all’odierno antinaturalismo militante. Di questo sa già chi si interessa di pensiero critico contemporaneo. Ciò a cui faccio riferimento è il modo in cui è cambiata la nostra percezione immediata del mondo naturale, ossia di tutto ciò che non è direttamente riconducibile all’esistenza e all’azione dell’essere umano.
La tradizione, che si estende più o meno dalle antiche civiltà del Mediterraneo alla seconda metà del secolo scorso, ha essenzialmente posto tre modi di rapportarsi con il mondo naturale.
Il primo e più antico è l’“utilitarismo”, la modalità che raccoglie in sé il foraggiamento, l’estrazione, l’accumulazione e la lavorazione delle materie prime. Questo modo di interagire con il non umano è accompagnato dall’illusione che ogni cosa sia stata appositamente creata affinché la nostra specie ne possa godere. Parafrasando Hegel, si tratta di quel tipo di antropocentrismo che ci fa credere che il sughero sia stato creato per ricavarne tappi per bottiglie.
Il secondo è il “finalismo”, un concetto che conduce l’ipotesi utilitarista a un livello superiore, ossia all’auto-narrazione umana di una direzionalità    interna all’universo e alla natura stessa. Direzionalità che, com’è ovvio, non può prescindere dal porre Homo sapiens come suo protagonista indiscusso. Si tratta di qualcosa che accomuna le grandi religioni organizzate alle più importanti correnti filosofiche dell’Ottocento, ma anche ai movimenti neo-spirituali hippie e new-age, a branche specifiche dell’ufologia e a certe ramificazioni occultiste.
Il terzo modo di guardare alla natura è quello tipico delle scienze. Questo terzo modo, spesso scambiato per mera curiosità, mescola il disinteresse nei confronti dell’utilità e della finalità a uno spiccato interesse di tipo epistemico. È la celebre “volontà di sapere” che Freud pone in qualità di matrice psichica del genio Leonardo da Vinci: un desiderio morboso e irrefrenabile di conoscenza.

È cambiata la nostra percezione immediata del mondo naturale, ossia di tutto ciò che non è direttamente riconducibile all’esistenza e all’azione dell’essere umano.

Questi tre modi, presi assieme, danno origine a ciò che viene chiamato “Principio Antropico”, ossia l’idea che l’intero universo ruoti attorno a Homo sapiens. Fino a qualche decennio fa era tale principio a dominare – seppur non in modo totalizzante – la visione occidentale della natura. È questo stesso principio che oggi, all’ombra del riscaldamento globale e della sesta estinzione di massa, abbiamo cominciato a reputare insufficiente.
Dopo diecimila anni di sbronza metafisica, il solo pensiero che l’essere umano possa essere davvero al centro di ogni cosa ci disgusta. Ci lasciamo alle spalle l’eccezionalismo e l’antropocentrismo per accogliere a braccia aperte l’esondazione editoriale di testi sull’intelligenza e la sensibilità degli animali non umani, delle piante e persino del mondo minerale e sintetico. Siamo sempre più in cerca di una nuova unità, di una pacificazione tra Homo sapiens e mondo naturale. Un’alleanza che tentiamo di siglare facendo ricorso a gadget tecnologici (dalle fonti di energia rinnovabili alla geolocalizzazione, fino al compostaggio dei cadaveri), ma anche attraverso il recupero di antichi dispositivi culturali di origine biologica: la danza, la meditazione, la respirazione e le sostanze psicotrope.

Oggi, un peso massimo del pensiero umanista del calibro di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, ci appare alla stregua di un pezzo d’antiquariato, anzi, di un nemico da combattere su tutti i fronti. Per Hegel la natura, il mondo e l’universo stesso non sono che il retaggio della grande avventura dello Spirito che, passando dalla materia inorganica alla vita, e da questa all’intelletto umano, giunge alla piena consapevolezza di sé. L’essere umano come apice della creazione. Ed è grazie ai vari pettegolezzi che sappiamo che Hegel non rimase per nulla colpito dalla vista delle Alpi, che amava e curava solo le piante del suo giardino, e che non serbava alcuna fascinazione nei confronti del cielo stellato. Il gran maestro dell’idealismo tedesco sembra riassumere in sé tutto quel che troviamo ingiusto e sbagliato dell’antropocentrismo ingenuo dei culti religiosi, del pensiero positivo e del negazionismo climatico.
Si tratta, in realtà, di un parziale malinteso.

Oggi, all’ombra del riscaldamento globale e della sesta estinzione di massa, abbiamo cominciato a reputare insufficiente l’idea che l’intero universo ruoti attorno a Homo sapiens.

Se si andasse a scavare a dovere nella raccolta che riunisce uno dei suoi più importanti cicli di lezioni, l’imponente Filosofia della natura (pubblicata nella sua versione definitiva nel 1830 e ripubblicata in Italia nel 2023 da Orthotes, nella traduzione di Valerio Verra), ci si renderebbe conto, fin dall’introduzione, di aver coltivato un mero pregiudizio. Tra le pagine di quest’opera si possono trovare alcune delle affermazioni più perentorie della storia del pensiero moderno. Innanzitutto, una visione della natura come “cadavere dell’intelletto”, ossia come scarto o rifiuto del processo evolutivo dello Spirito. Ma anche un richiamo alla inarrestabile vitalità della materia, compresa quella inorganica, nell’immagine della pietra che “urla”, lotta e si strazia per abbandonare il suo stato di puro corpo inerte. E non è tutto: la raccolta si apre con una confutazione sia dell’utilitarismo, ritenuto da Hegel una proiezione dei bisogni umani, sia del finalismo, giudicato alla stregua di un’allucinazione collettiva.
Coppie di concetti che sembrano fare a pugni le une con le altre. Da un lato, la negazione più totale della vitalità, dall’altro la sua esaltazione. Da una parte, un antropocentrismo radicale, dall’altra, la confutazione del Principio Antropico. In fin dei conti, è lo stesso Hegel a dirci che la natura non è né un soggetto intelligente né un oggetto inerte ma pura vita scatenata, fuori controllo.
Non mancano neppure le accuse alle scienze naturali, colte nell’eterna lotta tra il materialismo e la metafisica dei cosmologi e dei fisici teorici. Il primo accusato di spogliare la natura del suo lato estetico e di ogni forma di speculazione; i secondi di aver saturato la scienza di ipotesi campate in aria. Per Hegel è l’unità dei due poli a costituire il vero sentiero della filosofia della natura, così come delle scienze naturali. Ma come far combaciare sperimentazione scientifica e astrazione metafisica? Come sempre, questa contraddizione viene superata da Hegel dall’interno.

Innanzitutto, è necessario riconoscere come la nostra ossessione nei confronti della natura sia motivata da una sorta di fascinazione esotica. La natura ci appare infinita e sconfinata, totalmente esterna al nostro corpo e alla nostra mente. Un oggetto di studio e di analisi pressoché inesauribile dalle sole forze umane, ma anche qualcosa che non ci riguarda in prima persona.
Questa stessa esternalità, tuttavia, è un sottoprodotto del passaggio dello Spirito nel suo slancio dalla vita sensibile animale alla vita razionale dell’essere umano, che occupa il gradino superiore. Si tratta, in sostanza, di ciò che accade quando ci vediamo per la prima volta allo specchio: chi è l’estraneo che ci sta davanti, di che colore sono la sua pelle e i suoi occhi, quali rughe segnano la sua pelle, come si muove, come parla, come respira?
Hegel, il grigio filosofo dell’Accademia, non ci sta parlando (solo) di una pseudo-evoluzione di stampo misticheggiante, ma di una “presa di coscienza” della natura stessa. È la natura che, attraversando la vita sensibile, l’autoriflessione, il pensiero logico e quello poetico, muove i suoi primi, timidi passi verso la conoscenza di sé. Le pietre “gridano” giacché è quell’urlo che si fa strada fino a noi, fino a Homo sapiens: l’animale che può prendersi come oggetto del proprio pensiero, e che può prendere come oggetto l’universo stesso nella sua interezza.
È in questo senso che la natura rappresenta il cadavere dell’idea, allo stesso modo in cui una mente che analizza un corpo dal punto di vista della biologia sta esaminando non un corpo vivo (nella sua totalità organismica, etologica, psichica e cognitiva) ma un corpo morto. Un cadavere.
Per Hegel, lo Spirito (Dio, l’Assoluto o che dir si voglia) ha abbandonato il mondo naturale nel momento stesso in cui l’essere umano ha cominciato a pensare e autorappresentarsi. Ciò che resta indietro è un insieme ibrido di necessità, incarnata dalle leggi naturali, e contingenza, rappresentata dalle anomalie statistiche, dai fenomeni soprannaturali e dai mostri. Ciò significa che lupi, fiumi, fulmini e molecole sono soggetti non solo a un duro regime deterministico ma anche a scariche di casualità selvaggia. È utile notare che questo è il nucleo duro e il senso complessivo sia della teoria dell’evoluzione, sia delle varie teorie del caos.

La natura ci appare infinita e sconfinata, totalmente esterna al nostro corpo e alla nostra mente. Un oggetto di studio e di analisi pressoché inesauribile dalle sole forze umane, ma anche qualcosa che non ci riguarda in prima persona.

L’esperienza filosofica con le sostanze psicoattive è un laboratorio che non ha mai davvero aperto battenti. Da parte mia, ho avuto modo solo di recente di confrontarmi con due questioni che hanno riacceso il mio interesse nei confronti delle sostanze in generale. In primo luogo, l’utilità terapeutica. In secondo, la loro rilevanza teorica nel campo della filosofia della mente e del pensiero speculativo.
Premetto di essere stato, per anni, un irriducibile eliminativista. Ero assolutamente persuaso che l’Io e la mente fossero illusioni o, quantomeno, appendici mostruose e abnormi del cervello fisico. Oggi ne sono ancor più convinto. Ma sono anche convinto che sia necessario mantenere e, anzi, coltivare questo iato tra corpo e mente cosciente, seppur sotto l’egida di una nuova considerazione dello spirito umano. Si tratta di una questione di assoluta centralità all’interno del dibattito psichedelico. Tenterò di esporre il problema facendo riferimento a due esperienze personali avute con sottoprodotti del genere psilocybe, ma anche a un discorso che sta divenendo sempre più ampio e inclusivo grazie al lavoro di ambientalisti, scienziati e divulgatori: quello sulla natura.

Nella prima esperienza, dopo alcuni minuti ho scoperto, con mia grande sorpresa, di non stare scivolando in quel senso di unità e disseminazione tipico dell’high psichedelico. Avevo ancora un certo margine di controllo sul corpo, mentre la mente si inabissava in un senso generale di piattezza, lucidità e instabilità metafisica. Era come se ogni singolo oggetto fosse sul punto di esondare dai propri contorni, di crollare dal piedistallo ontologico dell’esistenza.
Il mio eliminativismo pareva confermato su tutta la linea. Non era solo l’instabilità delle cose che avevo scorto, ma quella del mio stesso Sé. Mi restò l’impressione di aver saggiato sul piano sensibile tre concetti astratti: la contingenza di tutte le cose; la loro finitudine, fragilità e transitorietà; e, infine, la necessità paradossale che ciascuna di queste cose esista solo per poter scomparire.
Tra gli effetti più interessanti notai un acuirsi delle facoltà sensibili e razionali. In parole povere, percepivo tutto e registravo tutto meglio del solito, con l’unica differenza che la mia intera coscienza si era fatta satura di negatività. Non il tipo di negatività che si trova nel pensiero pessimista (non una forma di disfattismo petulante), ma quella sorta di meccanismo distruttivo e autodistruttivo che, secondo Hegel, cova al nucleo di ogni singolo ente.
Da un punto di vista filosofico, ero immerso nello Spirito.

Per Hegel, ciò che ho visto e provato potrebbe essere paragonato a una raffigurazione intuitiva, persino profetica (e perciò stupida), della metà caotica dell’universo. Non è un caso che questa sorta di mania indotta ricordi da vicino la concezione schopenhaueriana della natura: un vortice privo di regolarità e ordine, nel quale ogni cosa viene distrutta e fagocitata. Ciò che ho sperimentato, forse, è stata una full immersion nella visione del mondo entropica.
A non essere tenuto di conto in tale visione è il lato vitale della natura, la sua produttività e la sua facoltà organizzativa. Quella che i fisici chiamano “neghentropia”.
In realtà, c’è anche altro. Di questo, lì per lì e negli anni a venire, non mi ero ancora reso conto. La negatività che scorgevo dietro a ogni cosa, ai bordi di ogni cosa, si accompagnava a quella che si agitava e cresceva dentro di me. Per Hegel questo duplice movimento rimanda a una medesima fonte: la libertà. Nella natura tale libertà si incarna nelle sperimentazioni inconsapevoli dell’evoluzione e dell’embriologia. Nell’essere umano, invece, assume i contorni della scelta etica e del libero arbitrio. Il soggetto è sempre libero di dire o non dire, di fare o non fare qualcosa. La natura, di contro, non può fare altro che seguire le leggi che essa stessa si è data, divergendo da esse solo in maniera accidentale.
È questa miscela di caos e determinismo a far sì che l’essere umano sia il solo ente in grado di raccogliere i fenomeni sotto il concetto di natura. Questo perché la mente umana appartiene a un ordine superiore, che ridiscende in direzione dell’abisso dal quale esso stesso è nato. L’esternalità della natura è l’abisso illusorio (ma di fatto concreto) che il pensiero è chiamato a colmare e oltrepassare attraverso la ricerca scientifica e filosofica.
Più in piccolo, nella sfera quotidiana, la natura è il corpo che ciascuno di noi è costretto ad abbandonare a fine vita, quando tutto ciò che siamo trasmigra sul piano dello Spirito: nel ricordo dei cari, nelle opere, nella cultura e nella storia.
In parole povere, la natura non sarebbe altro che la spoglia mortale dello spirito umano.

È all’ombra della psichedelia, nei suoi vuoti e nelle sue mancanze, che si riescono a scorgere in modo davvero efficace i suoi effetti sul pensiero.

Se quella prima esperienza mi ha condotto a riflettere sulla fragilità non solo delle cose che ci circondano ma del soggetto stesso, un’altra mi ha costretto a rivolgermi in tutt’altra direzione.
Lo psilocybe atlantis è noto per le visioni vivide e l’intenso senso di spiritualità che è in grado di infondere, per questo è uno degli psichedelici più apprezzati. Ciò che mi aspettavo era un incontro faccia a faccia con il mio sé più profondo e, in effetti, è quel che ho ricevuto, ma in forma di buffe allucinazioni e paranoia totale, accompagnate dalla sensazione che qualcosa di oscuro, dentro di me, attendeva di essere liberato – qualcosa a cui avevo dato il suggestivo nome di “tappo emotivo”.
Dopo, qualcosa è cambiato. Cominciava a farsi sentire il senso di unità, accompagnato dalla sensazione di dover raggiungere un luogo isolato. Intuivo tutto attorno a me spostamenti di forze, traiettorie e vettori, che non possono essere definiti in altro modo che “spiriti” – entità di stampo animista o, forse, ambiguamente panpsichista. Il violento flusso di energia che sentivo crescere in me appariva giustificato, addirittura avvalorato, da tali entità: dal volo del gheppio e della poiana, dalle tracce della volpe, dal fruscio dei gatti tra le siepi. Cresceva in me una consapevolezza energetica del mondo, al di là del bene e del male. Una sorta di ordine punteggiato è cominciato a emergere dal caos delle visioni, spianando la strada a un’ora e mezza di lucida e serena contemplazione.
Stavolta è stata la sfera sensibile a essere privilegiata, a discapito di quella razionale. Le abitudini, gli ancoraggi, i tic, le ossessioni: riuscivo a osservare ciascuna di queste cose con la massima chiarezza, pur non potendo ancora intervenire su di esse. Tutto ciò che era immediato e automatico splendeva di luce propria.
Da una prospettiva hegeliana, mi trovavo al cospetto della pura necessità, libera da qualsiasi forma di libertà e ingegno. Un robusto meccanicismo cosmico che collegava il mio corpo individuale – e, in particolar modo, il mio cervello e il mio sistema endocrino – al corpo immenso e imperscrutabile della natura. L’intuizione, non la conoscenza razionale, si era slanciata e riversata a riempire il baratro che separa il mondo interiore da quello esteriore. A mancare, in questo caso, era la congiunzione tra necessità e libertà. Non “ciò che può essere altrimenti” ma il punto in cui, alla soglia mobile del presente, il futuro può divergere dal passato.
Anche stavolta la soluzione giunge dall’interno dell’esperienza stessa, in quelle “buffe visioni” alle quali solo a posteriori sono stato in grado di conferire la giusta rilevanza. La proliferazione di forme e colori, la loro luminosità e nitidezza, la mobilitazione estetica dell’ambiente: tutti indizi dell’essenziale vitalità del mondo naturale.
Si potrebbe dire che sia questo a essere rivelato nel corso dell’esperienza psichedelica: la    continuità fondamentale di necessità e contingenza.
D’altra parte, l’estrema nitidezza della visione e gli effetti di “luccicanza” possono essere posti anche sul piano dell’esperienza soggettiva. È stato Aldous Huxley, nel suo classico Le porte della percezione, a intuire per primo un’ipotetica connessione tra questi specifici aspetti dell’esperienza psichedelica e la sfera dello Spirito. Per Huxley, al centro delle visioni di bellezza estatica prodotte dalle sostanze psicoattive, vi sarebbe una maggiore vicinanza al mondo delle idee pure e dell’inconscio collettivo. Ciò che, in termini hegeliani, si chiama Spirito Assoluto.

Cosa comporta tutto ciò per lo studio filosofico dell’esperienza psichedelica?
Si può notare, innanzitutto, che è all’ombra della psichedelia, nei suoi vuoti e nelle sue mancanze, che si riesce a scorgere in modo davvero efficace i suoi effetti sul pensiero. Le sostanze psicotrope e gli psichedelici ci consentono di esplorare lo spazio che divide materia e astrazione; uno spazio non ancora del tutto colonizzato dalle scienze naturali. Ciò che ci si pone di fronte è la possibilità, più unica che rara, di porre in relazione il nostro corpo – in quanto prodotto e parte integrante della natura – con il nostro spirito, ossia l’insieme dei nostri pensieri, delle facoltà estetiche, logiche e razionali. È questo che Hegel intende quando propone di erigere un ponte tra ricerca empirica e ricerca teorica. E, forse, è anche ciò di cui abbiamo bisogno per mettere in questione in modo ancor più profondo il nostro rapporto con la natura.
Non a caso è lo stesso Albert Hofmann (lo scopritore dell’acido lisergico) ad affermare, nel breve scritto “Il messaggio dei Misteri di Eleusi al mondo contemporaneo”, che «il valore fondamentale dell’esperienza mistica» sta nella «guarigione di un’umanità ammalata di visione parziale» (Percezioni di realtà, Stampa Alternativa, 2006). Nessun altro strumento biologico o artificiale è in grado di far ciò in modo altrettanto radicale. È questa la nuova consapevolezza alla quale la filosofia è condotta dalle sostanze psicoattive.

Filosofo, scrittore e traduttore. Ha tradotto per Nero Edizioni "Tra le ceneri di questo pianeta" e "Rassegnazione infinita" di Eugene Thaker. Ha pubblicato la raccolta di racconti "L'abisso personale" di Abn Al-Farabi (Nero) e l'ibrido theory/fiction "Ecopessimismo" (Piano B). Con il collettivo Gruppo di Nun ha pubblicato "Demonologia Rivoluzionaria" (Nero).