Intelligenza artificiale o banalità contemporanea?

Bedirhan Celayir

E se il successo dell’intelligenza artificiale in ambito artistico fosse soprattutto la cartina di tornasole di uno scadimento dell’esperienza estetica già ampiamente avviato?

da Quants numero 1, aprile 2023

Negli ultimi mesi milioni di persone in tutto il mondo hanno cominciato a familiarizzare con intelligenze artificiali “text based” come Chat GPT, MidJourney e Dall-e. Su social media, YouTube e banche immagini proliferano pagine zeppe dei risultati di queste sperimentazioni.
Ma come funzionano questi strumenti? 

Di base si tratta di sistemi programmati per “comprendere” un “linguaggio naturale” e utilizzare tale comprensione per generare ulteriore “linguaggio naturale”, sia esso testuale, come nel caso di Chat GPT, o visivo, come nel caso di MidJourney e Dall-e. Il mediatore di questo processo di (ri)produzione è l’utente umano attraverso un sistema di istruzioni verbali (i cosiddetti prompt) che dicono alla macchina cosa fare.

Alle fondamenta di tutto c’è un complesso sistema di apprendimento da parte della macchina, basato sull’accesso a miliardi di dati e modelli da imitare, rielaborare, replicare (il cosiddetto deep learning). E proprio il fatto che ci siano di mezzo concetti come “imitazione” e “replica” ha fatto sì che queste AI abbiano da subito suscitato grande dibattito non solo all’interno della comunità tecnologica ma anche in quelle culturale e artistica. Dove hanno immediatamente sollevato questioni etiche ed estetiche sulla relazione tra questi strumenti e lo stato, presente e futuro, della creatività umana.

Lasciando da parte temi para-legali come il fair use di millenni di evoluzione del patrimonio linguistico, visivo e culturale dell’umanità, ciò che interessa in questa sede è chiedersi: cosa significano questi strumenti, su tutti MidJourney e simili, per l’evoluzione dell’estetica umana (e post-umana)?

Cominciamo dalle cose semplici. Per esempio il dibattito tra i pro e contro, tra i favorevoli e contrari al loro uso. I primi sostengono che l’utilizzo delle AI nella creazione artistica finirà per ampliare e arricchire la gamma di opzioni disponibili per gli artisti, aprendo nuove vie per la creazione e la sperimentazione. Questo poiché le AI sono in grado di fornire supporto ai creativi nella realizzazione di compiti ripetitivi e nella generazione di idee, liberando tempo e risorse per concentrarsi su aspetti più umani e “delicati” della creazione artistica. Si tratta della riproposizione di una distinzione tra labor e work vecchia come il mondo. Una distinzione che ha senza dubbio un fondo di verità ma che è altrettanto spesso altamente strumentalizzata.

Le Cassandre dell’AI sottolineano invece il rischio che esse soppiantino del tutto il lavoro umano, portando così non solo a uno scadimento della produzione estetica ma anche a notevoli problemi socio-economici e a un esercito di disoccupati della creatività.

I sostenitori dell’ “innocenza” delle AI rimarcano infine come l’interazione tra intelligenze artificiali e umane su cui si reggono questi strumenti – basata, come detto, sull’affinare prompt sempre più strutturati, tecnici e precisi da dare in pasto al sistema – non sia in fondo molto diversa dalla ricerca di uno stile. Ovvero il lavoro che da sempre caratterizza gli artisti e che, in definitiva, anche queste AI lasciano in capo all’umano.

È dai tempi della scultura greca che l’arte si basa, in qualche misura, su processi di definizione, selezione e ripetizione. Questa dinamica è diventata ancora più evidente e marcata in seguito all’avvento degli strumenti di “riproducibilità tecnica”, la stampa e la fotografia su tutti.

Mentre il dibattito sulle AI impazzava io leggevo The Free World (Farrar, Strauss e Giraux, 2021) di Louis Menand, un lungo saggio in cui si raccontano alcune traiettorie di evoluzione del pensiero e dell’arte occidentale durante la Guerra Fredda. Tra esse c’è anche quella di Jackson Pollock. In proposito Menand racconta come il noto pittore, oggi uno dei più quotati sul mercato globale, sia arrivato alla celebre tecnica del dripping tramite un cosciente processo di selezione, per esclusione, di altri metodi. Un processo estremamente lucido, auto-consapevole, deliberato, ampiamente serializzato dal suo autore non appena egli capì che la tecnica aveva conquistato il cuore di critica e mercato. 

Se sottraiamo il labor materialmente coinvolto, è davvero quello appena descritto un processo così diverso dalla creazione e dalla iterazione di un prompt – finalizzato per esempio a ottenere una certa luminosità dell’immagine? Si potrebbe certo ribattere che il processo attraverso cui Pollock giunse al dripping richiese una quantità di intenzione e controllo da parte dell’artista molto maggiore rispetto a scrivere qualche parola in una griglia di testo, inclusa una comprensione profonda delle proprietà fisiche della vernice che solo una lunga esperienza può fornire, tuttavia in astratto è innegabile una certa somiglianza tra i due processi.

È dai tempi della scultura greca che l’arte si basa, in qualche misura, su processi di definizione, selezione e ripetizione. Questa dinamica è diventata ancora più evidente e marcata in seguito all’avvento degli strumenti di “riproducibilità tecnica”, la stampa e la fotografia su tutti. Si pensi a come già nel Cinquecento Albrecht Dürer trasse profitto dall’avvento della stampa per trasformare le sue incisioni in un fiorente commercio, e se stesso in una specie di artista-brand ante-litteram (con tanto di monogramma AD, a rimarcare questo aspetto della sua produzione). 
E tuttavia un altro versante dell’opera dello stesso Dürer fornisce materiale per riflessioni ulteriori sul senso dell’utilizzo delle AI. Uno dei filoni meno noti ma più stupefacenti dell’opera del pittore di Norimberga sono infatti gli acquerelli: riproduzioni e bozzetti di animali, panorami, fili d’erba, arti umani, dettagli architettonici straordinariamente realizzati anche se spesso non terminati. E in alcuni casi, va detto, il fatto che si tratti di lavori incompiuti, opere che il pittore ha deciso di non portare a conclusione, è proprio ciò che li rende più di ogni altra cosa affascinanti. C’è un grado di estemporaneità e immediatezza nella loro esistenza – nel fatto che essi riflettano un singolo e particolare momento d’ispirazione del loro realizzatore oltre il quale sono stati abbandonati – che non è riducibile a nessun processo standardizzato. 

La bellezza dell’incompiuto, la poetica del “non finito” come valore aggiunto e non come difetto dell’opera d’arte, risiede nell’immediatezza e nell’unicità dell’intervento dell’artista. È propria della parte del processo che comporta un dispiego di labor, e non può dunque essere riprodotta, neppure tramite il più sofisticato dei prompt, a tavolino da una AI.

Se le AI, invero ancora piuttosto “stupide” e limitate, fanno tanta sensazione e sembrano a taluni essere già in grado di imitare l’umano è perché già oggi il prodotto umano che imitano è a sua volta simulacrale e degradato.

Ragionando in termini di ripetizione e riproduzione una AI è per definizione impossibilitata a produrre “originali”. L’unicità dell’opera – già resa superflua dalla riproducibilità tecnica – è di fatto del tutto defunta nel mondo del “tutto pieno”, delle continue rielaborazioni e rework che è il mondo in cui si muovono i prompt di MidJourney. La si può al massimo maldestramente riesumare per scopi di mercato, come cercano di fare gli evangelisti degli NFT.

Viene a tal proposito in mente il concetto di “simulacro” elaborato dal filosofo postmoderno francese Jean Baudrillard. Le opere AI sono simulacrali nella misura in cui sono immagini sconnesse da una “ontologia concreta” (Blondel), tanto dal punto di vista della loro (ri)produzione quanto dal punto di vista del loro significato. Esse emergono da un magma di referenti non solo infinito ma anche indefinito, ovvero il denso e folto mare di segni e dati a cui attingono per (auto)generarsi. Le produzioni AI rappresentano in tal senso una iper-artificializzazione della percezione, e della produzione, estetica. Il che non significa che non siano destinate, per molti versi, letteralmente a soppiantare la realtà di qualunque altro tipo di immagine. Un’affermazione che va intesa in senso del tutto letterale. 

Se infatti è vero che le AI si basano, per imparare a immaginare (o forse si dovrebbe dire immaginificare), su immagini pre-esistenti, cosa accadrà quando la maggioranza di quelle immagini saranno a loro volta state generate dalle AI? È questa in fondo la teleologia, profondamente cibernetica, dell’AI. Nel momento stesso in cui ha cominciato a esistere, la AI ha cominciato a dirottare verso se stessa, in modo sempre più profondo e ineluttabile, il panorama semiotico – il medium-messaggio – in cui essa stessa opera ed esiste. 

È infatti evidente che se il referente estetico su cui vengono addestrate le AI diventa sempre più basato su altre immagini AI, esso finirà per plasmare in modo incontrovertibile la direzione della creatività e dell’estetica umana. Verso cosa? Verso, probabilmente, un’estetica “umano x macchina”, in cui via via l’elemento umano tenderà sempre più a sbiadire fino a un “punto Omega” in cui semplicemente sarà sparito del tutto.

Ma sono le AI le uniche responsabili di questo futuro (esaltante o deprimente a seconda dell’assiologia di ognuno)? Forse no. Forse il successo che stanno riscuotendo le AI è sia il sintomo che la dimostrazione di come il panorama del pensiero umano sia ormai già stato ampiamente formattato, in pochissimi decenni, dalla qualità appiattente, dalla mentalità metric-centered, più quantitativa che qualitativa, delle tecnologie dell’informazione. Se le AI, invero ancora piuttosto “stupide” e limitate, fanno tanta sensazione e sembrano a taluni essere già in grado di imitare l’umano è perché già oggi il prodotto umano che imitano è a sua volta simulacrale e degradato. È al “minimo morale”, per citare Adorno.

Non è un caso se, per esempio, le applicazioni delle AI text-based che vanno al momento per la maggiore siano spesso finalizzate alla ripetizione e alla automazione di contenuti linguisticamente o artisticamente già di per sé mediocri, come post da guru del marketing o illustrazioni iper-digitalizzate per servizi di print on demand. È solo poiché siamo ormai immersi costantemente in un mediocre liquame creativo (i famigerati “contenuti”!) che la produzione ancora rudimentale dell’AI risulta passabilmente “umana”. Dubito che esseri umani abituati a Gadda o Malevich, anziché assuefatti da tweet motivazionali o immagini da stock, potrebbero scambiare i contenuti di queste AI per qualcosa di diverso da una puerile novelty tecnologica. E tuttavia è ormai evidente da almeno un decennio che la Storia umana si sta avviando, in questo secolo, al capolinea della sua umanità in senso stretto. Che si tratti di una singolarità assoluta o soltanto di una soglia non è dato sapere, ma a chi sa guardare appare chiaro da tempo che, al di là di essa, il “senso del bello”, almeno per come l’ha coltivato la nostra civilizzazione per millenni, difficilmente avrà domicilio.

Giornalista, scrittore e curatore di contenuti. Si interessa dell'interazione tra tecnologia, economia e politica internazionale. Nel 2023 ha pubblicato "La signora delle merci" (LUISS University Press), un libro sulla storia della logistica e il suo ruolo nei meccanismi della globalizzazione.