Amazon, Google, Facebook: la caduta degli dei

Michael Dziedzic

Se vi sembra che le piattaforme che hanno caratterizzato gli scorsi decenni digitali siano diventate peggiori non è soltanto una vostra impressione.

da Quants numero 7, novembre 2023

C’è una domanda che gli utenti pongono sempre più spesso a Google, e che ha come protagonista proprio il motore di ricerca più utilizzato al mondo: «perché Google sta peggiorando?». Anche su una piattaforma come Reddit, le discussioni in cui le persone cercano di capire se davvero il prodotto di punta di uno dei più grandi colossi tecnologici del mondo sia ormai diventato la brutta copia di se stesso sono centinaia.

Com’è possibile che – secondo un gran numero di utenti – il motore di ricerca che è il sinonimo stesso di cercare qualcosa online (to google, in italiano “googlare”), che detiene una quota di mercato dell’85% e che genera circa l’80% del fatturato della casa madre Alphabet (una macchina da 280 miliardi di dollari di introiti nel solo 2022) non sia più in grado di svolgere il proprio lavoro e di fornire risposte soddisfacenti alle domande che gli vengono poste sui temi più svariati?


Facciamo un esempio: provate a digitare su Google “migliori computer portatili”. Nel mio caso, una semplice ricerca di questo tipo produce prima di tutto un carosello per lo shopping di link sponsorizzati (che quindi non si basano sulla qualità del prodotto), seguito dalla pagina (sempre sponsorizzata) di una grande azienda produttrice. Subito dopo, troviamo la classifica dei migliori computer di un sito assolutamente sconosciuto e che ha conquistato questa posizione privilegiata grazie al sapiente uso della SEO (search engine optimization, ovvero l’uso, ma troppo spesso l’abuso, delle tecniche che permettono di conquistare i primi posti tra i risultati del motore di ricerca). Dopo troviamo alcune ridondanti domande generate automaticamente, e solo al quarto scroll compaiono finalmente i più noti siti italiani di prodotti tecnologici.

La situazione è pessima anche se ci si cimenta con ricerche che non hanno nulla a che fare con la vendita di prodotti commerciali: consigli domestici, spiegazioni di tema economico o finanziario, suggerimenti per restare in salute e molto altro ancora. Ricerche che, nonostante siano meno piagate dalla pubblicità, rimandano a una serie infinita di contenuti superficiali, scarsamente informativi, che sono l’uno la copia dell’altro e talmente farciti di parole chiave utili esclusivamente a ingannare il motore di ricerca da essere praticamente illeggibili.

Quindi, da una parte abbiamo i cacciatori di click – che hanno imparato talmente bene a ottimizzare i loro contenuti per Google da rendere superflua, ai loro fini, la qualità del contenuto – e dall’altra abbiamo il colosso di Mountain View, che dalla sua posizione dominante sembra non aver più la volontà di offrire il miglior servizio possibile, ma solo quella di spingere gli utenti al limite della sopportazione tramite caroselli pubblicitari, inserzioni, box, suggerimenti e quant’altro.

Com’è possibile che il motore di ricerca che è il sinonimo stesso di cercare qualcosa online non sia più in grado di svolgere il proprio lavoro?

Quello di Google non è però l’unico caso. Al contrario: come ha scritto Ed Zitron su Insider, «nella Silicon Valley, l’esperienza utente è passata in secondo piano rispetto al valore delle azioni. Google, Amazon, Meta e altre società tech hanno monetizzato la confusione, testando costantemente quanto possono manipolare gli utenti e interferire con la loro attività».

Prendiamo proprio il caso di Amazon. A meno che non sappiate esattamente che cosa state cercando, molto spesso fare ricerche sul più grande portale di e-commerce del mondo – la cui quota di mercato è maggiore dei suoi quattordici principali concorrenti messi insieme – comporta uno slalom tra annunci pubblicitari non sempre chiaramente identificabili come tali, marche dai nomi improbabili dietro i quali spesso si nascondono oscure aziende abili soprattutto a ingannare il motore di ricerca, descrizioni sempre in stile SEO che fanno venire il mal di testa (per esempio: “Supporto Cellulare Auto, Portacellulare per Bocchette di Ventilazione, Smartphone Telefono Girevole a 360°, Compatibile con iPhone 12/13/ 14 Plus Pro Pro Max, Samsung, e Altro”) e prodotti contraffatti.

In mezzo a tutto ciò, abbiamo come unica bussola un sistema reputazionale basato su recensioni non troppo affidabili e che, inevitabilmente, rafforzano le pochissime realtà in grado di ammassare grandi quantità di voti, impedendo così la crescita di potenziali concorrenti (obbligati quindi a pagare Amazon anche per farsi pubblicità). Stando così le cose, non stupisce che – nonostante l’utilizzo di Amazon continui a essere un’esperienza quotidiana per moltissimi di noi – il tasso di soddisfazione degli utenti sia sceso di quasi dieci punti percentuali in un decennio (da uno straordinario 88% fino al 79% di oggi, comunque in risalita rispetto al 65% del periodo pandemico).

In sintesi, Google non ci aiuta a reperire recensioni o guide di qualità relative ai prodotti che vogliamo acquistare, mentre Amazon ci fa spesso precipitare in una giungla di offerte a volte incomprensibili. L’unione dei difetti di questi due colossi – che assieme raggiungono un valore di mercato pari a 2.500 miliardi di dollari – ha significativamente complicato l’esperienza dello shopping online.

Le cose non vanno molto meglio nemmeno per quanto riguarda un’altra fondamentale realtà delle big tech: Meta. Sono ormai passati due anni da quando, per la prima volta, Mark Zuckerberg si è trovato costretto a fare seriamente i conti con la saturazione degli utenti attivi di Facebook (fermi ormai da un anno e mezzo alla comunque mostruosa cifra di 2,9 miliardi) e soprattutto con il rallentamento di Instagram (vittima dell’impetuosa crescita di TikTok, ma che soprattutto inizia a mostrare i segni del tempo). Tutto ciò, inevitabilmente, ha causato una frenata del fatturato e un aumento del nervosismo degli azionisti, a lungo viziati da una crescita apparentemente inarrestabile. 

Ricerche che rimandano a una serie infinita di contenuti superficiali, scarsamente informativi, che sono l’uno la copia dell’altro e talmente farciti di parole chiave utili esclusivamente a ingannare il motore di ricerca da essere praticamente illeggibili.

Come ha reagito il fondatore del più grande impero social del mondo di fronte a questa situazione? La risposta, fondamentalmente, è sotto gli occhi di noi tutti: invece di impegnarsi per migliorare i suoi prodotti di punta, Zuckerberg ha preferito inondare Facebook di pubblicità (quindi a scapito dell’esperienza utente) e spronarci in ogni modo a visualizzare quei “reels” (cloni dei video di TikTok) che già su Instagram sono diventati talmente invadenti da causare una sorta di rivolta dei più grandi influencer della piattaforma.

Una mossa che rischia di rivelarsi un boomerang: secondo i dati, l’engagement generato dai reel di Instagram è praticamente inesistente. Non c’è da stupirsi: ogni piattaforma ha le sue caratteristiche peculiari a cui gli utenti sono affezionati, e imporre la trasformazione in una copia del social di maggior successo del momento (vale a dire TikTok) rischia di alienare gli utenti storici e, contemporaneamente, di non attirare chi già sta utilizzando la piattaforma che si sta cercando di clonare.

È poi notizia recente che l’ultima idea di Menlo Park sarà ufficialmente quella di proporre un abbonamento mensile per poter utilizzare i due social network senza pubblicità.

Al di là della necessità di mostrare agli azionisti, ogni singolo trimestre, una crescita di qualche tipo, quali sono le ragioni che hanno portato Amazon, Google, Facebook e non solo a esasperare i loro utenti? «Nel Duemila e nei primi anni Dieci del nuovo millennio, le aziende tech hanno effettivamente creato nuovi e interessanti prodotti», si legge ancora su Insider. «Prodotti che hanno reso la nostra vita migliore: trasformando i nostri telefoni da sistemi di comunicazione biunivoci in strumenti utili per imparare di più, per connetterci con gli amici e per documentare le nostre vite. Ciò ha alimentato l’esplosiva crescita delle aziende della Silicon Valley, le cui valutazioni e crescita del fatturato si sono impennate, mentre nuovi utenti continuavano ad arrivare».


Questa crescita apparentemente inarrestabile ha iniziato a frenare rapidamente nel corso di questo decennio, complice anche un quadro macroeconomico complesso e la fine di una fase finanziaria particolarmente esuberante. I colossi tech hanno tagliato migliaia (a volte decine di migliaia) di posti di lavoro ciascuno e le loro quotazioni sono scese anche del 60 o 70% rispetto all’autunno 2021, mentre i finanziatori – fino a quel momento più che disposti a elargire capitale fresco a qualunque startup avesse mezza idea valida – hanno iniziato a chiedere modelli di business solidi e rapidi ritorni economici (provocando le enormi difficoltà di Uber, WeWork, Lime e parecchi altri ex prodigi del capitalismo di piattaforma).

Alle prese con questa situazione, alcuni dei principali colossi hanno pensato di estrarre quanto più valore economico possibile dai loro storici prodotti, anche a scapito dell’esperienza utente e approfittando di una posizione dominante quasi inattaccabile.

Alle prese con questa situazione, alcuni dei principali colossi hanno individuato due soluzioni alle difficoltà. Prima di tutto, come visto, estrarre quanto più valore economico possibile dai loro storici prodotti, anche a scapito dell’esperienza utente e approfittando di una posizione dominante quasi inattaccabile. In secondo luogo, andare a caccia della “next big thing”: la prossima grande innovazione tecnologica in grado di far ripartire il ciclo di crescita esponenziale e soddisfare gli appetiti di investitori e azionisti.

L’esempio più evidente di questa dinamica è ovviamente Meta. Alle prese con le difficoltà dei tradizionali social network, Mark Zuckerberg ha deciso che era il momento di tuffarsi in quell’avventura digitale che andava immaginando almeno dal 2017: la costruzione del fantomatico metaverso. Oggetto dall’ottobre 2021 di un’estenuante campagna di marketing quando ancora il vero e proprio prodotto era praticamente inesistente (soprattutto se lo si raffronta con i video promozionali), circondato da un colossale hype mediatico nonostante i tanti segnali che le cose non stiano andando secondo i piani (ancora oggi Horizon Worlds, la principale piattaforma in realtà virtuale di Meta, è abitata da meno di 200mila utenti mensili) e a grande rischio flop, il metaverso immaginato da Zuckerberg è probabilmente l’esempio più chiaro di cosa avviene quando ciò a cui ambiscono i tecnomiliardari della Silicon Valley sembra non essere più la creazione di un prodotto che cambi (o almeno migliori) la vita degli utenti, ma solo pompare le azioni in borsa e scatenare la fantasia degli investitori.

Osservandolo da lontano, il cortocircuito di cui è vittima la Silicon Valley non dovrebbe più di tanto sorprendere. Dopo aver rivoluzionato il mondo con prodotti e servizi che hanno preso forma anche grazie alla fiducia e alla pazienza degli investitori, la vera missione di molte realtà tech è diventata esclusivamente quella di attirare nuovi investitori e di far salire il valore delle azioni in borsa. Costi quel che costi.

E così, dopo aver prosperato anche grazie a chi ha sostenuto a lungo i loro bilanci in rosso, oggi i colossi della Silicon Valley sono costretti a spremere i loro utenti e a sacrificare la qualità dei prodotto, facendo promesse per il futuro sempre più roboanti al fine di attirare nuovi capitali. Più che la strada per individuare la prossima grande rivoluzione digitale, per i colossi che hanno fatto la storia del web, dei social network e dell’e-commerce tutto questo rischia di rivelarsi un pericolosissimo circolo vizioso.

Giornalista classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per Wired, Domani, Repubblica, Il Tascabile e altri. È autore del podcast "Crash: la chiave per il digitale" (Vois Network).