Multitasking music, storia in due tempi dell’ambient del Sol Levante

Hiroshi Yoshimura

La ristampa di Soundscape 1: Surround di Hiroshi Yoshimura è l’occasione per addentrarsi nel diacronico mondo della “Kankyō Ongaku”, la colonna sonora della bolla economica giapponese, che predisse il futuro ipercapitalista e si prese una rivincita nel mondo digitale.

da Quants numero 11, marzo 2024

«Non può essere che uno stream di Ed Sheeran valga quanto lo stream della pioggia che cade sul tetto». Robert Kyncl, CEO della Warner Music, promuove con queste parole il sistema “artist centric” che sta rimodellando la distribuzione degli introiti delle piattaforme di streaming. In pratica verrà pagato per davvero solo chi supererà una soglia minima di stream, in modo da arginare il cosiddetto “rumore di fondo” costituito da quelle miriadi di tracce audio fatte di semplici rumori concreti (come la pioggia che cade o il vento che soffia) che vengono caricate da utenti “parassitari” nella speranza di raggranellarci qualche soldo. L’obiettivo del nuovo sistema è disincentivare la speculazione disonesta di chi carica questi suoni, premiando solo la musica-quella-vera. Ma forse, se queste tracce di puro rumore di fondo vengono comunque ascoltate da qualcuno, è perché non sono poi tanto sgradite a una parte dell’utenza.

Viene da chiedersi se per esempio supererà la soglia minima di introito – qualificandosi come musica tout court – una cosa come Continuous Performance No. 3 4/4/1978 – River Sound, incisione che da pochi mesi è su YouTube. Arriva da un misterioso vinile del 1978 e altro non fa se non riprodurre per 26 minuti il suono dell’acqua che scorre in un torrente. Gli “autori” di questo field recording sono Yukio Kojima e Hiroshi Yoshimura; un ingegnere del suono il primo e un compositore ambient il secondo. Che è anche, a vent’anni dalla morte, uno dei musicisti più influenti sulla nostra contemporaneità.

La musica ambient giapponese degli anni Ottanta ha esercitato un ruolo “cronologicamente paradossale” sul presente e sull’ancor breve storia della musica in streaming.

E dire che Yoshimura non è che sia stato, in vita, granché famoso. Quando è scomparso, nel 2003 a 63 anni appena compiuti, un solo suo album (oltretutto ritoccato) era stato distribuito in Occidente. Eppure è proprio a lui che si sono ispirati tanti musicisti di area elettronica dei nostri giorni e un numero incalcolabile di smanettatori casalinghi e caricatori compulsivi di musica ambient a perdita d’orecchio, quelli che stanno riempiendo di suoni ogni anfratto della rete, confondendosi con il “rumore di fondo” dello streaming e generando fenomeni come il “lo-fi hip-hop” di cui si è già scritto su queste pagine. Il dilagare incontrollato di musiche come la cosiddetta “Bandcamp ambient”, i sopradetti rumori concreti a fine speculativo e le chiacchieratissime creazioni dell’intelligenza artificiale, sono attenzionati con timore dalle major discografiche. Ed è per lo meno curioso che Hiroshi Yoshimura, suo malgrado, abbia in qualche modo ispirato almeno una parte di questi fenomeni con la sua “environment music”, o come la chiamano i giapponesi “Kankyō Ongaku”; Yoshimura che tutto fu meno che un oppositore del sistema, un artista “pericoloso”. Al contrario, la sua musica ambient delicata, ipnotica e impersonale nasceva per sonorizzare architetture avveniristiche e luoghi-simbolo del boom economico, del quale la Kankyō Ongaku si può dire sia stata la colonna sonora “naturale” (mai aggettivo fu tanto problematico…).

Vale la pena approfondire la peculiare vicenda della musica ambient giapponese degli anni Ottanta soprattutto per il ruolo “cronologicamente paradossale” che esercita sul presente e che ha avuto nell’ancor breve storia della musica in streaming. A partire dagli anni Dieci del nuovo secolo, infatti, alcuni musicisti dall’indole divulgativa, come Spencer Dolan dei Visible Cloaks, hanno alimentato un culto crescente per la riscoperta dei suoni retro-elettronici della Kankyō Ongaku, capaci di porre agli ascoltatori e alla critica un dilemma filosofico attualissimo e che nello stesso tempo ciclicamente si ripresenta: quello del distinguo fra “musica d’arte” e “musica d’uso”. Questo accadeva, oltretutto, in un contesto che doveva ancora fare del tutto i conti con le logiche virali dei social network e le possibilità dello streaming. Proprio grazie al successo riscontrato su YouTube da alcuni album di quel filone, del tutto sconosciuti in Occidente, è accaduto per esempio che diverse etichette discografiche siano nate (vedi la Empire of Signs) o si siano specializzate (Light in the Attic, WRWTFWW, Palto Flats) in questo tipo di materiale, emerso sul proscenio internazionale a quarant’anni dal suo concepimento.

La concezione filosofica del tempo che hanno i giapponesi è anti-teleologica, il loro modello mentale segue il ciclo delle stagioni e si focalizza su ogni singolo attimo “sospeso”.

Pubblicare su vinile dischi che hanno avuto successo grazie allo streaming è un gesto che si può leggere da un lato come opportunismo mercantile che fotografa la crisi delle etichette discografiche, ridotte a correre dietro agli algoritmi; ma dall’altro lato può essere un escamotage per sganciare “fisicamente” la musica dai nostri computer e ridarle, attraverso un supporto a sé stante come il vinile, quel valore artistico che rischiamo di perdere (anche se, prosaicamente, vediamo chiaro quanto la valenza iconica del vinile rientri ormai appieno in calcolate strategie di marketing). Considerazioni oziose, forse, ma che evidenziano come lo scorrere del tempo possa mutare il senso delle opere d’arte, a prescindere dalle intenzioni originarie. Quanto a Hiroshi Yoshimura, probabilmente non condividerebbe l’idea di scollegare la sua musica dalla funzione di “arricchimento sonoro” degli ambienti per i quali era pensata. Ma erano altri tempi (seppur sinistramente capaci di evocare l’ipercapitalismo di oggi), quelli nei quali si mosse il compositore che meglio incarna la vocazione ultima della Kankyō Ongaku. E che non si improvvisò musicista ambient dal nulla.

Innanzitutto perché in Giappone il terreno culturale era fertile. La concezione filosofica del tempo che hanno i giapponesi è infatti anti-teleologica, non orientata verso un qualsivoglia “progresso” che presuppone un orizzonte lineare e carica il futuro di aspettative. Il modello mentale segue piuttosto la ciclicità delle stagioni e dunque un movimento che non enfatizza un inizio e una fine, focalizzandosi su ogni singolo attimo “sospeso”, carico di un significato a sé stante e non subordinato a un fluire generale o a un fine superiore. La stessa filosofia condiziona l’estetica della musica tradizionale hōgaku, che infatti suona aliena, imprevedibile e “slegata” alle orecchie occidentali, ma vale lo stesso a ogni livello culturale, si vedano quei cartoni animati sportivi dove non è raro che la rappresentazione di una singola azione di gioco, magari carica di tensione emotiva, si dilati temporalmente per l’arco narrativo di un intero episodio.

Più in concreto, il “godfather” della musica d’ambiente, ossia il francese Erik Satie che cent’anni fa la chiamava musique d’ameublement, in Giappone è famosissimo. Per lo meno dal 1963, quando ebbe grande successo il film di Louis Malle Le Feu Follet, la cui colonna sonora ridonda di brani di Satie, che nel corso dei decenni ci siamo abituati ad ascoltare ovunque, dalla pubblicità fino a film nemmeno troppo intellettuali. Solo l’anno prima, nel ’62, aveva fatto scalpore in Giappone una serie di concerti tenuti da John Cage. Il genio che ha rivoluzionato le fondamenta teoriche della composizione del Novecento influenzò molti virgulti dell’avanguardia del Paese (tra cui Toshi Ichiyanagi, primo marito di Yoko Ono) e contribuì a de-romanticizzare l’idea dell’arte musicale, coerentemente al movimento Fluxus che lui stesso aveva ispirato e che in Giappone naturalmente attecchì. Ne fece ad esempio parte Kuniharu Akiyama, che nel ’64 realizzò musica di carattere decisamente minimalista che veniva trasmessa di continuo e a basso volume nella sala da pranzo del Villaggio Olimpico di Tokyo. Musica che solo nel 2016 – proprio quando l’Occidente scopriva la Kankyō Ongaku su YouTube – è stata pubblicata dall’etichetta nipponica Edition Omega Point e che si presenta come una sequela di suoni molecolarizzati, apparentemente indifferenti l’uno dall’altro, con una certa affinità alla tradizione hōgaku, che infatti nasce come arte “di compendio” al teatro, secondo un’ottica che neanche troppo grossolanamente potremmo definire “funzionalista”. Nel 1975 sempre Akiyama organizzò a Tokyo una serie di concerti dedicati ai Complete Works of Erik Satie, che incrementarono la popolarità del primo teorico dell’ambient.

La musica in streaming spesso diventa il sottofondo di vite consumate per lo più all’interno delle mura domestiche, dove si lavora da remoto lasciando fuori il caos delle metropoli.

La Music for Airports di Brian Eno, che arriva solo tre anni dopo, fa scattare la scintilla. Al culmine del miracolo economico gli spazi vuoti da riempire spuntano come funghi: centri commerciali, gallerie d’arte, sale convegni aziendali, avveniristici hotel e impianti sportivi, agglomerati residenziali e così via. L’idea di una musica che si prestasse tanto a permeare strutturalmente un luogo, evocandone l’essenza più suggestiva, quanto a “non disturbare” chi si trovasse lì e avesse altro per la testa – molto meglio, insomma, della dozzinale muzak da ascensore dalla quale lo stesso Eno prendeva le distanze – sedusse i giapponesi con la stessa facilità con la quale quella stessa musica si insinuava nelle sale del Tempio capitalista.

E poi c’è il walkman, invenzione nipponica che arriva giusto nel ’79 e impatta sulle abitudini di ascolto, sempre più private e isolazionistiche, oltre che sugli aspetti timbrici e compositivi della creazione musicale. La facilità con la quale ci si poteva procurare sintetizzatori e strumenti di nuova concezione prelude al dilagare dell’elettronica, specie in un Paese dove il successo di una pionieristica band techno-pop come la Yellow Magic Orchestra aveva del clamoroso. Lo stesso gruppo, nell’81, titolerà un album BGM, ossia Back Ground Music. Ancora un anno e sarebbe arrivato l’esordio di Hiroshi Yoshimura.

Che negli anni Settanta si muoveva tra gli esperimenti sulla computer music e il vivace circuito dell’improvvisazione, frequentando colleghi come Akio Suzuki, pioniere delle installazioni sonore, e il venerabile Takehisa Kosugi, che aveva saputo coniugare l’esperienza para-accademica del Group Ongaku, a fine anni Cinquanta, con le forme più dilaganti e mistiche del minimalismo e della psichedelia, culminate nell’estetica sciamanica del suono dei Taj Mahal Travellers. In generale, nella seconda metà di quel decennio c’era grande fermento sperimentale nella musica giapponese, si vedano figure come Yas-Kaz e Toshi Tsuchitori, percussionisti di estrazione free-jazz che studiando a fondo tradizioni come quella balinese approdarono a originali forme di musica new-age. Tsuchitori fu peraltro il partner del grande Ryuichi Sakamoto nel suo debutto discografico del ’75 e all’interno della Yellow Magic Orchestra c’era anche chi, come l’ingegnere del suono Hideki Matsutake, aveva già in curriculum un album di musica per sintetizzatori e shamisen.

La Kankyō Ongaku, ammanicata com’era ad un sistema capitalista che doveva poetizzare (o per lo meno aiutare a digerire), preconizzò le ansie, i bagliori e le contraddizioni del mondo che abitiamo oggi.

Queste fusioni tra estetiche sonore rintracciate nel cuore delle tradizioni etno-folk e possibilità timbriche scoperchiate dall’uso dell’elettronica erano obiettivamente intriganti, ma ancora troppo hippie e intellettuali perché le multinazionali se ne facessero qualcosa. Però quella nuova musica, figlia della tecnologia, mondata dai residui più controculturali e intesa, come faceva Brian Eno, in termini di “funzionalità” nei confronti di uno spazio, aveva un grande potenziale. La Kankyō Ongaku nacque quando a Hiroshi Yoshimura fu commissionata la creazione di “musica di sottofondo” per il salone d’accoglienza dell’Hara Contemporary Art Museum di Shinagawa, a Tokyo. Utilizzando solo un piano elettrico, Yoshimura compose Music For 9 Postcards, album d’esordio e disco-guida di un intero sotto-genere, un lento gocciolare di note aleggianti in un vuoto oppiaceo, che segue la filosofia di Brian Eno – quella cioè di predisporre nell’ascoltatore uno stato di rilassata veglia senza imporre nulla – in un perfetto equilibrio di impulsi carezzevoli e lieve straniamento dovuto alla timbrica “innaturale” di una tastiera che di umano mantiene rimbalzi d’eco e dinamiche sottili. Pregio di Yoshimura è non scivolare mai nel misticismo d’accatto o nel sentimentale zuccheroso, fedele a una sorta di “pragmatismo trascendentalista” che lo porta a comporre su commissione nel quadro scenografico della bolla economica, ma suonando come se fosse ispirato da una fonte di consapevolezza superiore.

Music For 9 Postcards esce nel 1982 sulla piccola etichetta Sound Process, che pubblica anche musiche di Satie e l’unico album del titolare Satoshi Ashikawa, Still Way, che non si allontana dalla poetica dell’amico, impiegando arpa, piano, flauto e vibrafono in un’atmosfera similmente sospesa e meditabonda, con rimandi tanto ai madrigali quanto a una versione addomesticata della musica hōgaku.

Un’importante commissione commerciale coinvolgerà poi Haruomi Hosono, superstar della Yellow Magic Orchestra in cerca di un rifugio dall’intrusività del successo. Su incarico del colosso commerciale Muji nasce Watering A Flower (1984), composizione fatta di minimi rintocchi sottopelle a scandire un tempo “inscatolato” e abitato praticamente solo da una linea melodica elementare e dolcissima, che si reitera all’infinito, cullando come solo l’abbraccio di una madre (o del Capitalismo incarnato…) saprebbe fare. In teoria un disco minore (uscito in origine solo su cassetta), che per effetto della riemersione agevolata dall’algoritmo di YouTube ha goduto di recente di un culto spasmodico, raccogliendo nei numerosi commenti al video una specie di seduta di autocoscienza digitale collettiva (NERO Editions ne ha raccolto una selezione in un libro del 2019). Hosono credette anche nella spendibilità dell’ambient nel mercato convenzionale, producendo nell’83 l’esordio del duo Inoyama Land, costola dei folli new-wavers Hikashu. La loro musica, che procede per nuclei di arpeggi ripetuti ad libitum e dolciastre melodie concentriche, ha solo un po’ di “quadratura” in più rispetto alla Kankyō Ongaku stricto sensu. Che poteva manifestarsi anche sotto forma di lavoro pubblicitario, vedi l’eccezionale Music for Commercials di Yasuaki Shimizu, inetichettabile genio che deve ancora una volta la sua notorietà differita agli algoritmi di YouTube.

Fuori dalle commissioni si mosse invece Midori Takada, percussionista che dopo aver collaborato con Satoshi Ashikawa e attraversato il reticolo minimalista di tamburi e marimbe del Mkwaju Ensemble (nei quali debuttò quel Joe Hisaishi che avrebbe musicato i film di Kitano e Miyazaki) conia con Through The Looking Glass (1983) un linguaggio in grado di fondere il minimalismo di Steve Reich con le radici mesmeriche delle tradizioni etno-percussive, mantenendo un mood miracolosamente intimo. Questo disco è stato il più premiato in assoluto dalla visibilità offerta dal web, l’esito più lampante di un percorso di scoperta di musiche “mai ascoltate prima” in Occidente che partì dai sistemi di peer-to-peer e poi approdò sui blog. Il più influente dei quali fu quello dell’etichetta Root Strana, sul quale Spencer Dolan dal 2010 prese a pubblicare mixtape a base di ambient e “fourth world music” giapponese. La successiva fortuna di questi album su YouTube ha portato alle ristampe sul mercato internazionale e a una compilation manifesto come Kankyō Ongaku (Japanese Ambient, Environmental & New Age Music 1980 – 1990), uscita nel 2019.

Le ragioni del successo diacronico della Kankyō Ongaku si possono solo ipotizzare, ma sicuramente c’entra il “come” si ascolta musica oggi: in modo sempre potenzialmente “multitasking”. Questo per via dello streaming, che spesso diventa il sottofondo di vite consumate per lo più all’interno delle mura domestiche, dove si lavora da remoto lasciando fuori il caos delle metropoli. Gli algoritmi di YouTube premiano i video che fanno rimanere le persone più a lungo sul servizio, quindi la natura cullante dell’ambient e le sue lunghe durate sono ideali, si veda anche il successo di vlog nipponici come La vita di Nami, che sembra la traduzione per immagini della poetica sonora di cui parliamo. Il fatto che buona parte di queste musiche nascesse su commissioni di multinazionali avrebbe probabilmente creato problemi “etici” alla loro diffusione nel circuito underground degli anni Ottanta, mentre oggi il concetto di “indipendenza artistica” non gode di particolare credito e quasi tutti i musicisti di area grossomodo sperimentale lavorano spesso e volentieri per gallerie d’arte, film e marchi pubblicitari (è difficile sopravvivere in altro modo). Insomma, la Kankyō Ongaku sembra nata ieri. Anzi oggi.

Tanto che di Hiroshi Yoshimura proseguono le ristampe, e ora tocca a Soundscape 1: Surround, ripubblicato dall’etichetta Temporal Drift che fino all’altro giorno si era occupata solo dei Les Rallizes Dénudés, apripista del rock underground del Sol Levante, il cui primo bassista si arruolò in un gruppo terroristico (pensate la distanza ideologica da uno che lavorava per le Keiretsu, le grandi “famiglie industriali” giapponesi). Surround uscì nel 1986, quando Yoshimura pubblicava anche Green, il suo unico album stampato negli Usa, dall’etichetta new-age Sona Gaia, che lo manipolò aggiungendo dozzinali suoni naturali per legare insieme i brani più alieni e basati su pure tessiture elettroniche – ispirati, più che al verde della natura, al suono della parola “green”, da cui i titoli dei brani, tutti caratterizzati dalla doppia ‘e’ (“Creek”, “Feel”, “Sheep”…). Surround nasce invece per le palazzine prefabbricate dell’azienda di costruzioni Misawa Homes ed è un bellissimo disco di rarefatte trame di tastiere e marimbe annegate in un’eco che sa di placenta, con germogli di carillon e la profusione di un senso di calma che confonde il reale con l’artificiale; un distinguo che oggi molti considererebbero obsoleto.

Nel 1986 la bolla speculativa giapponese evidenziò le prime crepe del miracolo economico. La Kankyō Ongaku, ammanicata com’era a un sistema capitalista che per mandato doveva poetizzare (o per lo meno aiutare a digerire), preconizzò le ansie, i bagliori e le contraddizioni del mondo che abitiamo oggi. Al tempo di Hiroshi Yoshimura, il lato rassicurante di questo immaginario e la sua tensione verso la profezia tecnocratica della Fine della Storia (infranta nell’ottimismo ma incarnata nella sensazione di un presente incapace di evolvere) poteva davvero ammaliare, come dimostra l’efficacia e tutto sommato la “sincerità” della sua musica. Che oggi fa da colonna sonora alla nostalgia perduta di qualcosa che abbiamo solo potuto sognare.

Giornalista musicale e tuttofare della cronaca locale. Redattore del mensile musicale Blow Up e del settimanale romagnolo Settesere, è tra i fondatori del più attempato podcast italiano ("Radio NK") e pur occupandosi tipicamente di “musica giovanile” (per lo meno così si diceva nel Novecento) ha scritto un libro sul liscio.