Cocoricò, il futuro è archeologia

Sunset Produzioni e Cocoricò

Cosa è rimasto dell’attitudine folle del Cocoricò anni Novanta? Quanto è (ir)ripetibile quell’esperienza? Un documentario pieno di materiale d’archivio e arricchito da preziose testimonianze – Cocoricò Tapes, girato da Francesco Tavella – riporta alla luce memorie, suggestioni, dubbi, insensatezze. E ci chiede: quanta voglia abbiamo oggi di creare davvero nuovi immaginari?

da Quants n. 16 (2024)

Il futuro è ormai solo archeologia? Per certi versi è un nodo alla gola, la visione di Cocoricò Tapes. Il documentario di Francesco Tavella, che è in primis una accurata giustapposizione di filmati d’archivio con però anche alcuni tocchi di valore aggiunto (c’arriveremo, sono importanti), mette un misto di malinconia e preoccupazione se si è osservatori un minimo attenti. Quello che appare infatti è, per certi versi, letteralmente fantascienza se vista con gli occhi di oggi: fantascienza del divertimento, fantascienza della socialità, fantascienza della creatività applicata al mercato, fantascienza della tolleranza. Fantascienza, sì, fantascienza pura: perché pare impossibile possa esistere – se non in una radiosa utopia di là a venire, dopo decenni di attesa ed evoluzione – una forma così evoluta, astratta e sofisticata di divertimento di massa.

Tutte le battaglie di oggi più socialmente avanzate, quelle cioè per la parità di genere, per l’inclusività reale anche verso i margini più margini, per un uso affilato ma al tempo stesso non cinico della tecnologia, per evitare una onnipresenza delle logiche mercantili nel nostro agire e nel nostro essere, ecco, tutte queste battaglie nel Cocoricò degli anni Novanta erano realtà. Di più: erano una realtà acquisita, acquisitissima, erano quasi banalità, qualcosa di dato per scontato e automatico. Ed era, altro punto cruciale, una realtà che conviveva fianco a fianco col qualunquismo, col divertentismo più dozzinale, con l’edonismo più superficiale, con la voglia di ostentazione materiale.

Ecco. Questa è una chiava fondamentale. Il Cocoricò è stato, negli anni del suo vero splendore, un perfetto esempio di post società. Un luogo cioè dove potevano e dovevano convivere gli opposti, dove potevano e dovevano convivere il benpensantesimo e il suo contrario, dove potevano e dovevano convivere la superficialità più cinica o ottusa e la sofisticazione di pensiero e di condotta più raffinata e coraggiosa. E attenzione: non era una convivenza fatta di realtà che semplicemente s’ignoravano e mai entravano in contatto, pur stando sotto lo stesso tetto, tirando ognuno per la propria strada e le proprie geometrie. No. Era una convivenza fatta di curiosità reciproca. Di sentita, divertita e tollerante curiosità reciproca.

Il Cocoricò è stato, negli anni del suo vero splendore, un perfetto esempio di post società. Un luogo dove potevano e dovevano convivere gli opposti, il benpensantesimo e il suo contrario, la superficialità più cinica o ottusa e la sofisticazione di pensiero e di condotta più raffinata e coraggiosa.

… Poi per carità, alla fine del weekend, quando i lunedì e la vita normale tornavano a prendere possesso delle vite di tutti, ognuno tornava alla sua routine. Non è il caso di farla più romantica ed epica di quanto fosse davvero: il Cocoricò non è stato mai un luogo concretamente rivoluzionario. Chi vi è arrivato da incendiario, tale è rimasto (o ha smesso di esserlo per i colpi del destino, più che per sopraggiunta consapevolezza o cambio d’idee); chi vi è arrivato da conservatore e moralista, al riprendere della settimana ha continuato a essere tale; chi invece arrivava laico e incuriosito – e per fortuna erano, eravamo in tanti – ha saputo prenderne il meglio, si è fatto ispirare, ha imparato anche qualcosa in più su di sé e sugli angoli più nascosti della propria emotività e dei sensi, ma alla fine non ha rinunciato a seguire il destino che già da prima si era più o meno immaginato per se stesso. Il Cocoricò è stato profondamente psichedelico, per le droghe e per la spettacolarizzazione, senza però mai voler davvero sovvertire il sistema. Se qualcuno se ne è sentito stravolgere, è stata una sua libera scelta. Non una imposizione. Al Cocco c’era spazio anche per il divertimento più tradizionale e banale. Non è che ne venisse espulso.

Sia chiaro, finché è esistito nella sua forma più artistica e artistoide il Cocoricò è stato una grande luce di consapevolezza e di ricchezza etico-estetica per tutti, e non un posto qualunque. Varcare la soglia del suo ingresso era comunque un’emozione forte, reale: il marketing aveva funzionato e funzionava alla grande, certo, per una volta però era un marketing legato alla sostanza (in tutti i sensi…) – non soltanto un tentativo di cavare sangue dalle rape, ovvero estrarre plusvalore lì dove in realtà non ce n’è o non ce ne dovrebbe essere. Il Cocoricò aveva cioè una comunicazione sopra le righe e una fama sopra le righe perché, in effetti, sopra le righe era anche quello che vi accadeva dentro: qui sta il punto. La musica aveva il coraggio di essere più cattiva e veloce (in Piramide), più sperimentale e colta (al Morphine), più puramente house e senza compromessi in tal senso (al Titilla), rispetto a quasi qualsiasi altra discoteca d’Italia. Non era tuttavia un santuario puramente dedicato alla musica e alla club culture nel senso più puro, ieratico, collettivista, utopico: c’era il biglietto costoso, c’erano i PR, c’era la selezione all’ingresso, c’era la promessa di edonismo pronto-uso e senza troppi sforzi, c’era la “bella gente”. C’erano insomma un sacco di orpelli ereditati dalle discoteche commerciali anni Settanta e Ottanta.

Il Cocoricò aveva una comunicazione sopra le righe e una fama sopra le righe perché, in effetti, sopra le righe era anche quello che vi accadeva dentro.

C’era poi anche la consapevolezza, da parte di chi si immaginava le declinazioni più estreme e creative dell’esperienza-Cocoricò, che solo una minima parte del pubblico capisse davvero le suddette declinazioni estreme: Loris Riccardi, il deus ex machina di questo periodo magico, in Cocoricò Tapes lo dice a chiare lettere, ed è uno dei pregi fondamentali del documentario questo passaggio. Anzi, la presenza stessa di Loris è un pregio immenso e vale da sola la visione di un’ora e passa di materiale girato/assemblato: perché se c’è una persona che ha contribuito a creare il mito, a far deflagrare l’immaginario più magico e visionario, quella è lui.

Non Riccardi da solo, va da sé, ma con l’aiuto di una serie di nuclei: che vanno dalla proprietà che ha creduto in lui, e gli ha lasciato carta bianca, ai molti collaboratori, così come a un certo tipo di fauna iper-creativa e discretamente folle che si era coagulata attorno a quel luogo, in un determinato periodo. Ma il primo motore aristotelico creativo era effettivamente lui, Loris. Uno che non si faceva problemi a essere, come dire?, il luogo comune di se stesso, troppo intelligente per vergognarsene o per nasconderlo, vivendo febbrilmente a duecento all’ora. Fino a quando quel misto di sfiga, caso, inevitabilità su certi limiti fisiologici ha presentato il conto sotto forma di aneurisma, tagliandolo completamente fuori dai giochi (anche se in realtà già covava una flessione della magia e del furore, già era nell’aria il fatto che le cose dovessero cambiare, normalizzarsi un po’ con più attenzione ai conti e meno ai voli pindarici… Del resto stati di grazia del genere durano sempre pochi anni, e raramente sono sostenibili economicamente – ma anche emotivamente – sul lungo periodo).

Peraltro anche al momento della massima fama e del massimo potere Loris era uno che si concedeva a pochi (ed era, per inciso, una persona davvero stimolante e interessante), figuriamoci dopo la botta dell’aneurisma: ritrovarlo quindi in un documentario sul Cocco testimonia dell’importanza e della bontà del documentario stesso. E lo stesso vale anche per un’altra presenza, fta le persone portate davanti a una telecamera a raccontare l’epopea, quella di Giuseppe Moratti, ovvero il PR più elegante, colto, particolare, luciferino, intelligente, di cuore che possiate immaginare. Si associa – giustamente – la nomea e la carica di “PR” nel mondo delle discoteche e del ballo di solito a petulanti raduna-folle piacioni e dozzinali, no? Ecco: Giuseppe era ed è il contrario, come persona. Non era l’unico personaggio di valore o di bizzarria nello staff esteso della discoteca (anche se probabilmente era quello più di valore), ma di sicuro il fatto che uno degli sbigliettatori di strada di flyer e riduzioni del Cocco fosse una persona così particolare nell’aspetto (alto, ieratico, quasi nosferatesco, con una cortesia d’altri tempi, di notevole cultura, di immensa umiltà) la dice lunga su come i miti veri si costruiscano attraverso scelte coraggiose e controcorrente. Attraverso il capitale umano, non solo quello economico.

Sicuramente c’era l’onda lunga dell’edonismo disimpegnato-ma-teatralmente-creativo degli anni Ottanta. Oggi però pare essersi completamente persa una qualsiasi forma di comunicazione tra avanguardia e mercato di massa.

… Ma ritorniamo all’inizio. Ritorniamo a come il futuro sia archeologia, come scrivevamo nella frase d’attacco, e su quanto la visione di Cocoricò Tapes stringa il cuore. Sicuramente era un’Italia più ingenua, quella discotecara di metà anni Novanta. Sicuramente c’era l’onda lunga dell’edonismo disimpegnato-ma-teatralmente-creativo degli anni Ottanta, quello descritto così bene da Tondelli in Un weekend postmoderno. Oggi però pare essersi completamente persa una qualsiasi forma di comunicazione tra avanguardia e mercato di massa. Il collante principale, che era proprio la grande rivoluzione techno/house nata in Inghilterra con le droghe come propellente danceflooriano e con i rave, e che in Italia (e non solo) si è saldata ben presto col mondo discotecaro, pare in qualche modo aver abdicato.

Da un lato la musica elettronica da dancefloor, se vuole mantenere un certo tipo di nobiltà intellettuale, sembra voler/dover svoltare verso unicamente la sperimentazione estrema, o il pop autoproclamantesi obliquo (vedi alla voce C2C Festival, per stare in Italia, ma è un problema non solo italiano), bacini in ogni caso che si posizionano all’interno di cerchie di intransigente ricercatezza ed esclusività; dall’altro ciò che ha assunto portata popolare si è immerso nelle dinamiche più conclamatamente mainstream (la popolarità social, la banalizzazione del messaggio, la teatralizzazione semplificatoria, l’accento sui numeri, la liofilizzazione cronologica in cui pare poter avere senso solo un continuo peak time, solo una continua serie di conferme, il resto è zavorra e scarto di lavorazione).

In questo secondo caso, quello diciamo così più commerciale-da-grandi-numeri, gli immaginari ormai invece di venire creati – come accadeva un tempo, in una riattualizzazione futurologica degli anni Ottanta edonisti – si riciclano, cosa che non pare dare fastidio a nessuno. L’individualità e l’originalità, un tempo valore supremo, oggi sono stati rimpiazzati dall’omologazione e dal riconoscersi reciproco sotto forma di rassicurazione. Voler essere sottocultura e microcosmo specifico, con regole etiche ed estetiche proprie, è oggi più una foglia di fico chic e friabile da sventolare brevemente a favore di post o di selfie che una realtà fattuale e intimamente sentita, visto che in realtà non c’è nessuna forma di antagonismo e di alternativa rispetto alle dinamiche sociali e artistiche dominanti.

Ve la facciamo più semplice, per evitare che il discorso diventi troppo inutilmente “alto”: oggi gli aficionados del ballo techno/house più introdotti e attivi si vestono tutti uguali e pregano gli stessi santuari (con Ibiza, Tulum, Berlino, Londra, Miami che diventano intercambiabili, con una banalizzazione abbastanza impressionante). Al massimo la distinzione è fra chi ha più soldi davvero, chi aspirerebbe ad averne come quelli che ne hanno davvero, chi invece rinuncia in partenza e si accontenta di essere truppa proletaria e fieramente tamarra in questo grande gioco. Una geografia molto semplificata e pacificata, che non a caso è stata conquistata e colonizzata dai grandi brand del fashion e in generale dai marchi più furbi e dinamici, che da vampiri quali sono provano a succhiare le residue stille di carisma, di originalità, di fascino di un certo tipo di clubbing; e nel farlo hanno avuto gioco facile, perché il mondo techno/house non è più refrattario o comunque indifferente ai grandi meccanismi industriali del consumo – tipo quella della moda – ma anzi: li brama, li desidera.

Nel Cocoricò degli anni Novanta non è che la moda non ci fosse (Gaultier lo veneravano tutti, ma mica solo lui: la lista dei marchi d’alta moda addosso alle persone era nutritissima), però era obbligatorio reinterpretarla, mettervi cioè un tocco originale. Così come dal punto di vista musicale era semplicemente obbligatorio che vi suonassero nomi che non avessero successo alcuno nei contesti mainstream. Tutto questo anche se si faceva la cosa più mainstream e banale del mondo: ballare, sentirsi folla e cercare il piacere (sotto forma di figa, di cazzi, di semplice gratificazione estetica, o del sentirsi in qualche modo importanti, protagonisti).

Oggi, se cerchi la ricerca e la sperimentazione non devi dare l’idea di divertirti troppo: divertirsi apertamente è volgare, è dozzinale, è appunto mainstream (a meno che tu non stia facendo una colta operazione di recupero della psichedelia anni Settanta, vedi il fiorire di articoli alti sul microdosing in alcune riviste specializzate o il piglio di alcuni festival musicalmente sofisticati in cui è forte il binomio natura-psichedelia). Se invece cerchi il divertimento schietto e immediato, trovi che ricerca e sperimentazione siano una presenza invadente: una presenza che questo tuo divertimento lo ostacola e lo appesantisce in nome di un poco gradito “richiamo etico” all’intelligenza a cui, a dirla tutta, non hai più voglia di sottostare, anzi, di più, a cui non hai più la pazienza di sottostare. Questo perché il divertimento deve arrivarti diretto, chiaro, facile da decodificare, pochi cazzi. Subito a tua disposizione, sì: come la musica sulle piattaforme, i film su Netflix o su Prime, lo sghignazzo su TikTok.   

L’individualità e l’originalità, un tempo valore supremo, oggi sono stati rimpiazzati dall’omologazione e dal riconoscersi reciproco sotto forma di rassicurazione.

Se il Cocoricò degli anni Novanta riaprisse oggi, in poco tempo il Titilla così come era allora sarebbe più importante della Piramide così come era allora, e vi sarebbero allocate più risorse (perché da ogni presenza al Titilla è facile estrarre una cifra pro-capite maggiore in consumi, essendo un pubblico più adulto e altospendente). Ancora: in poco tempo la Piramide avrebbe solo e unicamente nomi di forte e trasversale successo commerciale, non gli “irregolari”, e in poco tempo il Morphine passerebbe da luogo di culto che tiene alto il profilo del posto a bugigattolo di quattro intellettuali sfigati che si ostinano a voler suonare e ascoltare musica che non piace (più) a quasi nessuno. Non durerebbe, insomma, il Cocoricò di Cocoricò Tapes se rinascesse oggi tale e quale. Fallirebbe a breve, e del resto già col passaggio al nuovo millennio di due decenni fa il Cocco “lorisriccardiano” forgiato negli anni Novanta era inesorabilmente al tramonto, sopravvivendo solo con la rifrazione nostalgista della serate a nome Memorabilia.

La cosa interessante è che oggi il Cocco esiste, esiste ancora, esiste davvero, e anzi opera bene. È gestito bene: in maniera seria, ragionevole. Tira in ballo quando serve il suo heritage anni Novanta più estremo e carismatico (il già citato Memorabilia, molto in salute, così come da un paio d’anni la Pasqua creata invitando i Mutoidi e le loro sculture meccanizzate), ma sta sempre attento a non fare il passo più lungo della gamba e a far quadrare i conti. In Piramide ormai gli headliner sono sempre e comunque nomi grossi, ben connotati sul mercato, spesso non estremi o troppo radicali dal punto di vista musicale (difficilmente ci senti le sonorità techno estreme, ecco); il Titilla è stato completamente ripensato, e reso molto più ordinato e “adulto”; il Morphine non c’è più, non si è provato a rianimarlo come esperienza, al suo posto una sala techno che dà meno spazio alle stranezze e più ai BPM per ventenni.

È insomma un’altra cosa. Più ordinata, più ragionata, più segmentata secondo principi di mercato. Quello che si vede in Cocoricò Tapes non solo oggi non c’è più, il punto è proprio che non tornerà a breve, e forse addirittura non tornerà mai. Era qualcosa che parlava di iper-presente e di spinta verso un vitalismo che sapeva, nei casi migliori, di futuro. A costo di essere disordinato, a costo di essere autodistruttivo, a costo di combinare mainstream e underground, di mescolare in modo pasticciato conservazione e progressismo, popolare ed elitario; ma questo tipo di approccio tanto furibondo e creativo quanto ingenuo e poco organizzato rischia di essere oggi un’istantanea in bianco e nero, qualcosa che resterà solo in VHS a bassa definizione, e nei ricordi di persone che ormai hanno preso le distanze da se stessi vuoi per scelta, vuoi per età. Non è un po’ triste, tutto questo?

Classe 1974, inizia occupandosi di rap (quando in Italia era un fenomeno carbonaro che interessava pochi fissati) per poi allargare lo sguardo a trecentosessanta gradi, a partire dall’elettronica e dalla club culture. Per vent’anni firma del Mucchio Selvaggio, oggi si divide tra Soundwall, Rolling Stone, Outpump e altri, più varie consulenze per brand e festival. Ha scritto due libri e, tra grandi soddisfazioni di critica e feedback ma pagamenti mancati da parte dell'editore, si è ripromesso di non farne mai più.