La musica del silenzio

La storia di come l’assenza di suono ha cambiato il canone occidentale ed è diventata un grande affare.

da Quants n. 16 (2024)

«Man mano che diminuisce il prestigio del linguaggio, aumenta quello del silenzio». Nelle ultime righe del suo saggio “Estetica del silenzio” (Stili radicali di volontà, 1969) Susan Sontag scriveva una massima piuttosto attuale. Secondo la studiosa americana immagini, parole, suoni distribuiti globalmente e istantaneamente (dal telefono e i jet, diceva lei; su Internet, diremmo noi) generano una cacofonia nella quale la distinzione tra segnale e rumore è sempre meno rilevante, tale da spingere gli artisti al mutismo. Al traffico umano e al chiasso delle macchine che fanno funzionare la nostra vita si è aggiunta una cascata di informazioni sonore che inquinano il nostro paesaggio acustico, compresi social network come TikTok che prima parlano e poi chiedono il permesso. Di fronte a tutto questo, il silenzio sembra una reazione, una soluzione, forse una via di fuga.

Sarà questa domanda di pace ad aver generato negli ultimi vent’anni un’offerta di esperienze silenziose come la silent disco, che pur toccando il paradossale, dimostrano l’importanza di una prossemica sonora, lo spazio (cioè il volume) dentro il quale ogni incursione acustica sembra un’invasione brutale. Il silenzio è arrivato a essere percepito addirittura come un lusso, letteralmente: nel 2020 il Global Wellness Institute considerava i silent retreat come primo trend nella multimiliardaria economia del wellness. Eppure, l’aspirazione al silenzio è antica quanto il linguaggio: a ogni espressione udibile corrisponde un impulso a tapparsi le orecchie uguale e contrario.

L’aspirazione al silenzio è antica quanto il linguaggio: a ogni espressione udibile corrisponde un impulso a tapparsi le orecchie uguale e contrario

«A me il silenzio piaceva: mi divertiva almeno quanto le chiacchiere che fanno oggi», diceva Dioniso ne Le Rane di Aristofane. Già alla fine del V secolo a.C. pareva ovvio che la tragedia fosse piena di parole superflue, e il silenzio era gradito pure sul palcoscenico dove si doveva recitare e cantare. Raro come l’oro cui è associato dal detto popolare, il silenzio è solenne per certi personaggi di Omero; è la reazione ovvia a un amore ineffabile per Saffo e poi Catullo – vale la pena ricordare che la lirica e l’epica erano musicali. E il silenzio è sacro, dice un altro adagio, ma sul serio. Nel mezzo di ogni inciso, infatti, il canto gregoriano lasciava una pausa (media distinctio), diversa a seconda del riverbero naturale di ciascuna chiesa, che consentiva ai coristi di prendere fiato: e mentre si respira – rileva la studiosa Emma Hornby – lo Spirito Santo entra nei polmoni. Dal Medioevo in poi, le pause e le fermate scritte sullo spartito si sono evolute, dando nuovi significati al silenzio. Dagli spazi incommensurabili nella Toccata in Re minore di Bach alle lungaggini della Patetica di Beethoven, dalla Seconda Sinfonia di Bruckner (nota come “sinfonia delle pause”) al tacere drammatico di un Tristano e Isotta di Wagner, il canone europeo ha trovato nei vuoti un mezzo di comunicazione emotiva tra compositore, orchestra e pubblico. Potevano alzare o abbassare la tensione nell’ambito dell’armonia classica; o incorniciare le soluzioni cromatiche e tonali delle prime avanguardie musicali. Ma non erano mai niente.

Secoli dopo, un esperimento del 2005 di Elizabeth Margulis l’ha dimostrato. La percezione del silenzio (di qualunque lunghezza) è partecipativa tanto quanto la percezione del suono, e il pubblico ne ha esperienze differenti a seconda del contesto in cui il silenzio è inserito: quieto dopo una cadenza normale; teso dopo una nota irrisolta. Il silenzio, cioè, ha una tonalità e un tempo: definito dalla musica che lo incornicia, certo; ma tutt’altro che un non essere, anzi, musica a pieno titolo.

Altre culture musicali davano già un senso concreto al vuoto. L’estetica tradizionale giapponese, ad esempio, l’aveva definito nel concetto di ma, o “spazio negativo”, visibile in certe forme di giardini, e udibile nell’accompagnamento del teatro nō e della musica di corte gagaku. «La musica o è suono, o è silenzio» avrebbe detto negli anni Sessanta il compositore Toru Takemitsu, che di parte di quell’eredità culturale si sarebbe fatto erede nel Giappone post-bellico.

Se si può scrivere il silenzio su un pentagramma, e se nella pratica della performance si può suonare il silenzio, si può anche registrare il silenzio?

Perché anche il canone occidentale accettasse il principio per cui il silenzio non è una privazione, ma un elemento positivo, avremmo dovuto aspettare una persona affascinata proprio dalla cultura giapponese (ma che diceva anche «Non date tutta la colpa allo Zen»); l’autore di quella che è erroneamente considerata la prima composizione muta della storia, eppure il vero punto di partenza del silenzio musicale. 4’33’’ di John Cage debutta il 29 agosto 1952 a Woodstock, NY, “suonata” da David Tudor di fronte a un pubblico attonito e anche piuttosto rumoreggiante per i minuti di niente appena “ascoltati”. Di fronte ai più severi critici di questa invenzione, Cage si è difeso sottolineando che la pièce fosse tutt’altro che silenziosa, dal momento che tutti i suoni ambientali, dagli uccelli fuori dal teatro agli scricchiolii del pianoforte, dal fruscio delle pagine dello spartito ai sussurri del pubblico, ne erano parte. Il silenzio, insomma, è condizione necessaria per espandere il concetto di cosa sia musica e cosa no, perché secondo Cage «il silenzio non esiste».

Per comprendere 4’33’’ serve una breve storia della sua genesi, ben documentata dallo stesso compositore nel saggio Silence del 1961. L’interesse di Cage per i silenzi e i rumori ambientali risale a quasi tutto il primo ventennio della sua carriera. Nel febbraio del 1948 per la prima volta parlò di una composizione interamente muta, durante una lezione al Vassar College: la sua intenzione era proporre un’incisione di puro silenzio alla società Muzak, responsabile della musica di sottofondo in spazi pubblici come negozi e ascensori, quella che oggi chiamiamo, per l’appunto, muzak. La prima scintilla di questa creazione, insomma, rispondeva alla questione del rumore industriale: non per negarlo (come provava goffamente a fare la muzak), ma lasciandogli spazio. L’esperienza in una camera anecoica ad Harvard, nel 1951, lo convinse che in effetti non si può fuggire dai suoni: il rumore delle proprie funzioni vitali, in questo caso. Curiosamente, l’inattingibilità del silenzio era in linea con gli insegnamenti Zen che in quegli anni aveva ricevuto seguendo gli incontri di Daisetsu Teitarō Suzuki e Alan Watts. Infine, la visione dei White Paintings del pittore Robert Rauschenberg del 1951 rassicurò Cage sulla possibilità di presentare un’opera d’arte “vuota”. Così, nell’estate del ‘52 il silenzio andò in scena.

Il silenzio, però, era già stato composto. In una ricerca del 2020, Eder Wilker Borges Pena dell’Università di San Paolo ha rintracciato tre antenati di 4’33’’, tutte composizioni dallo spirito palesemente umoristico. Il primo è italiano, Il Silenzio: pezzo caratteristico e descrittivo (stile moderno) comparso sulle pagine de La Nuova Musica di Firenze nel 1896 e firmato con lo pseudonimo “Samuel” (probabilmente il direttore della rivista, Edgardo Del Valle De Paz). Lo spartito presenta tutte le alterazioni possibili e immaginabili (diesis, bemolle, bequadro) in fila, un tempo “larghissimo, lunghissimo e misterioso” e una sfilza di pause segnate sul pentagramma, con tanto di indicazioni di dinamica: si tratta di un inside joke per musicisti con qualche frecciata anti-wagneriana. Grasse risate, insomma. Di grana più grossa è l’umorismo impiegato un anno dopo da Alphonse Allais, amico d’infanzia di Erik Satie e con lui frequentatore dei cabaret parigini: nel 1897 Allais pubblica dentro una raccolta multimediale dal titolo eloquente (Album Primo-Avrilesque) una “marcia funebre per i funerali di un grande uomo sordo”: sul pentagramma, nulla. Il predecessore di Cage più interessante è il praghese Erwin Schulhoff, che nel 1919 inserì in una collezione di cinque composizioni dedicate a George Grosz un’articolata e surreale pièce silenziosa intitolata In futurum: questo lavoro che contraddice e sfida tutte le regole della scrittura musicale è permeato dallo spirito Dada delle origini, uno sperimentalismo come negazione e superamento della tradizione. Lo stesso intento di Cage, il quale – grazie al clamore dell’happening silenzioso dell’estate del ‘52 – lo avrebbe consegnato a molti sperimentatori a venire.

Da Britney Spears a Lemmy Kilmister, da Kendrick Lamar a MC Hammer, tanti hanno provato gusto a imporre un vuoto nelle loro tracce.

La tecnologia avrebbe imposto un’altra tappa alla storia del silenzio: se si può scrivere il silenzio su un pentagramma, e se nella pratica della performance si può suonare il silenzio, si può anche registrare il silenzio? Curiosamente, la storia del silenzio inciso parte proprio dal decennio in cui Cage fa debuttare il “suo” silenzio, lo stesso nel quale la musica popolare si sarebbe manifestata nel suo primo grande fenomeno chiassoso. Dagli spazi muti tecnici tra una traccia e l’altra alle misteriose ghost track disperse negli immensi spazi dei supporti digitali, il silenzio registrato si sarebbe evoluto in una versione compressa, accelerata e shakerata di quanto abbiamo appena raccontato. Privi del feedback fisico dei musicisti, i silenzi di un disco sono una miriade di vuoti che potenzialmente minano la fiducia nell’incisione stessa, e tuttavia ne sono una pre-condizione essenziale per rendere intellegibile una traccia dall’altra: in un certo senso, la riproducibilità tecnica del silenzio mette in dubbio la riproducibilità tecnica del suono. Ogni pausa più lunga del “normale” mette in crisi la relazione con il supporto, lasciando spazio al vero demiurgo e idolo: l’artista. A questo proposito, esiste un paragrafo dell’enciclopedia del pop dedicato alle canzoni che dicono “stop” e fermano la musica: da Britney Spears a Lemmy Kilmister, da Kendrick Lamar a MC Hammer, tanti hanno provato gusto a imporre un vuoto nelle loro tracce.

Due cantautori in particolare hanno suonato il silenzio: sto parlando di Paul Simon e Art Garfunkel, ma non mi riferisco alla loro canzone più celebre, bensì a “Overs” (1968), dove sul finale sentiamo ben 5 secondi di niente. Il titolo “The Sound of Silence”, però, che sarebbe passato anche all’LP del 1965 che la conteneva, ha un fascino enorme. Come suona il silenzio? Se si escludono i tentativi di imitarlo, come avrebbe fatto la musica ambient (Steve Roach ne cercava le “strutture” in un omonimo disco del 1984) e chi ha continuato a sperimentare pause e fermate – un anno dopo Roach, Arvo Pärt avrebbe riempito di vuoti la sua Psalom – qual è il suono del vero e proprio silenzio inciso su nastro? E soprattutto perché dovrebbe interessarci ascoltarlo?

Le risposte a questi interrogativi sono state diverse, e nel 2013 l’etichetta milanese Alga Marghen ne ha raccolte alcune dentro l’LP Sounds of Silence – The Most Intriguing Silences In Recording History!, che riprende vistosamente il titolo e la copertina dei sopracitati Simon & Garfunkel. La missione dei curatori – Matthieu Saladin, Patrice Caillet e Adam David – sembra paradossale e dadaista come la stessa scelta di suonare o incidere un silenzio: raccogliere le autentiche registrazioni di tracce silenziose nel modo più fedele possibile. Perché i silenzi sono tutti diversi tra loro, e basta sfogliarne le ragioni per capirlo.

Alcuni silenzi si sono incisi in segno di protesta politica, come se per rispondere allo strombazzare continuo della propaganda si potesse solo abbassare il volume: è il caso della ballata “in onore” di Richard Nixon di John Denver (sette secondi di niente), o la vuota raccolta dedicata alla “saggezza” di Ronald Reagan, pubblicata nel 1980 da una sotto-etichetta della punkeggiante Stiff Records. Altri silenzi celebri sono a metà tra la performance art e il messaggio utopico, con un tono ben più ottimista: è il caso dei due minuti di silenzio di John Lennon e Yoko Ono (quest’ultima, peraltro, molto vicina al movimento Fluxus, che aveva fatto di Cage un profeta) o del silenzioso inno “nutopiano” di Lennon, un inno che non c’è per un posto che non esiste, ma dovrebbe. Il silenzio come protesta può essere irridente nel muto “suono della libertà di parola” dei Crass, o assomigliare a un sabotaggio sonoro: così Sly Stone non mise alcuna nota nella title-track del suo pessimistico album politico del 1971 There’s a Riot Goin’ On, amara pietra tombale sull’idealismo degli anni Sessanta. Il silenzio è anche il suono dell’austerità, il lungo spazio tra due parole (o due note) in rispetto di un momento tragico, e che tutti osserviamo nella formula del “minuto di silenzio”: esattamente quanto dura la traccia muta che i Soulfly dedicarono all’11 settembre 2001 dentro l’album 3.

Un silenzio può essere disumano, come in un test pressing che misura la qualità del master; o, viceversa, può rispondere alla più umana delle esigenze, quella di sdrammatizzare con una gag. Nel 1970, anni prima di rivoluzionare inconsapevolmente l’hip-hop producendo le campionatissime “Bongo Rock” e “Apache”, Michael Viner pubblicò per MGM Records un disco-gag per eccellenza: The Best of Marcel Marceao, il meglio del più celebre mimo di sempre – con un nome deformato forse per evitare querele da Marceau. Privo di intenti politici, forse velato di satira per i popolarissimi comedy record, questo disco si nutre di un senso dell’umorismo profondamente dadaista e Fluxus: il suo senso non sta tanto nell’incisione (muta, tranne per due minuti di applausi alla fine di ogni lato), ma nell’azione del mettere in vendita ed eventualmente comprare un intero LP di niente.

Fino all’avvento del digitale, insomma, il silenzio da cui emergevano le canzoni incise su un disco era una disordinata sinfonia di fruscii: aveva ragione Cage, insomma, il silenzio non esiste.

L’esistenza stessa del silenzio è la sua giustificazione comica, insomma. Uno stravolgimento che è sistematico in ogni elemento del Nothing Record del 1980 – di cui la compilation Sounds of Silence raccoglie due brevi frammenti. Il “disco di niente” portava la punch line del silenzio in ciascun elemento tangibile del disco: la tracklist; le note sul retro; perfino un foglio di lyrics, naturalmente bianco. Tra le frecciate satiriche dei suoi titoli risulta particolarmente significativo il “suono del battito di una mano”, estrapolato da un famigerato kōan giapponese. Somma ironia, visto che proprio dal bacino culturale e filosofico Zen aveva attinto a piene mani John Cage per elaborare la pièce da cui tutta questa storia di silenzi ha avuto inizio.

Anche il filone comico dei dischi muti può contenere una valenza politica, per quanto velata, e si nota in alcune delle primissime incisioni mute. È il caso dei 45 giri vuoti inseriti dentro i juke-box dell’Università di Detroit, di cui parla un articolo di Billboard del gennaio 1959; o del contemporaneo 7 pollici intitolato Six Whole Minutes of Golden Silence, che nel retro di copertina elenca artisti popolari che non sono presenti, come Chuck Berry o Elvis – che del resto aveva altro da fare con l’esercito, in quei giorni – vero antecedente del Nothing Record. Il messaggio subliminale ma non troppo è che il silenzio è una degna alternativa al caos del rock’n’roll, cioè dei giovinastri. Il 1959 sembra l’anno decisivo per la storia del silenzio registrato: in quei mesi Capitol Records distribuiva a pochi interessati e dipendenti un 45 giri promozionale completamente vuoto intitolato Listen To The Quiet, associato all’omonimo album jazz di Joe Bushkin; e risale a quell’anno anche un’opera silenziosa che, a dispetto dell’inevitabile natura umoristica di tutta questa faccenda, cercava la consistenza del nulla.

L’artista Yves Klein, che nel ‘49 già aveva fatto seguire venti minuti muti a un singolo accordo nella sua Monotone-Silence Symphony, nel ‘59 con l’aiuto di Charles Wilp pubblicò il primo silenzio rigorosamente registrato. Il titolo del disco: Prince of Space/Musik der Leere (principe dello spazio, musica del vuoto). Il contenuto: un’ora di suono della puntina sul vinile. Nel sottolineare l’aspetto materico del silenzio, Klein ne metteva in dubbio la natura privativa-negativa che buona parte del pubblico ancora gli attribuiva: come una pittura bianca evidenzia la trama della tela, così il silenzio mostra la grana del tempo, un rumore universale, ineludibile. È un puro caso che sempre nel 1959 sia stata costruita l’antenna che avrebbe permesso a Penzias e Wilson di scoprire la radiazione cosmica di fondo. Fino all’avvento del digitale, insomma, il silenzio da cui emergevano le canzoni incise su un disco era una disordinata sinfonia di fruscii: aveva ragione Cage, insomma, il silenzio non esiste.

Lo sviluppo tecnologico avrebbe ulteriormente accentuato l’aspirazione al silenzio, dalla promessa dei CD di un puro silenzio digitale (peraltro titolo di una traccia muta dei Melvins) alle cuffie con noise-canceling, che creano l’impressione del nulla grazie a un’illusione acustica. Dietro a questo desiderio sarebbero seguiti ancora i valori associati ai silenzi, ormai dispersi in una discografia globale sempre più vasta e opprimente. Il silenzio riposa secondo Robert Wyatt nei trenta secondi muti dentro il suo album Cuckooland. O continua a provocare per i Ciccone Youth (cioè i Sonic Youth) che accostano Madonna e John Cage nel Whitey Album dell’88. Possono essere solenni, quasi sacri: nel ‘97 i Sigur Rós anticipano l’atmosferica “Hafssól” con diciotto secondi di silenzio “prima che sorga il sole”, per preparare l’ascoltatore alla mistica del momento. Ma anche assurdamente umoristici: nell’album del ‘99 che contiene la loro unica hit, i Bloodhound Gang riservano dieci secondi muti per elencare “le dieci cose più fighe del New Jersey” – nulla, appunto.

Forse la traduzione su disco più efficace del silenzio di John Cage, però, è dei Boards of Canada, che a cinquant’anni di distanza da 4’33’’ concludono il loro album Geogaddi (2002) con una traccia muta intitolata “Magic Window”. Le teorie sul brano sono molteplici, nessuna confermata: dal minutaggio che porterebbe l’intero disco a 66 minuti e 6 secondi di durata alla frequenza riportata sull’etichetta dell’edizione in vinile del disco (162.225 MHz) dove normalmente viene segnato il numero di rotazioni a cui ascoltare il microsolco, che suggerirebbe letture antimilitariste; per non parlare del fatto che il lato F del vinile non ha nessun groove ma solo il profilo di una famiglia, inciso nella plastica, di fatto un solco inascoltabile. Il silenzio registrato così è uno spazio dove l’elemento extramusicale può insinuarsi e allargare la percezione di cosa si intenda per musica: non i rumori ambientali di Cage, ma le fantasie paranoiche e i feticci di un XXI secolo piuttosto angosciante.

Il valore del silenzio oggi è anche pecuniario. Nel 2014 la band americana Vulfpeck pubblicò l’album Sleepify: conteneva dieci tracce di trenta secondi, assolutamente mute. In quel modo la band intendeva protestare contro i sistemi di ripartizione delle royalties dello streaming, e prova ne era il fatto che abbiano incassato dei soldi (ventimila dollari, secondo alcune fonti) prima che Spotify eliminasse il disco. Curiosamente, negli ultimi dieci anni le piattaforme si sono riempite di tracce di puro rumore ambientale o rumore bianco, oggetti che John Cage avrebbe ritenuto perfettamente musicali, e d’altro canto sfruttano i punti ciechi della piattaforma. Con il nuovo sistema in vigore dal 2024, invece, Spotify deciderà quale silenzio è musica e quale no: le royalties per le tracce cosiddette “funzionali” (compresi i dischi muti) saranno pagate l’80% di meno. Sarebbe interessante sapere se i “due minuti di silenzio” di Lennon e Ono saranno colpiti da questo taglio, o se invece i silenzi diventeranno diversi anche dal punto di vista socio-economico. Forse i creatori di tracce “funzionali” saranno disincentivati ad attingere impropriamente dall’illustre storia del nulla musicale per fare un semplice profitto; o forse la fuga dai rumori continuerà a produrre desiderio di silenzio: certamente, questa particolare branca della storia della musica non è finita qui. In Silence John Cage racconta di aver trovato tra i libri del maestro Suzuki una raccolta di poesie scritte da un monaco giapponese alla ricerca dell’illuminazione. L’ultima recitava così: «Ora che ho raggiunto l’illuminazione, mi sento da schifo come sempre». Probabilmente lo penserà anche chi troverà il vero silenzio, ammesso che ci riesca.

Giornalista e autore esperto di musica. Ha collaborato con ANSA, scritto un libro sulla storia di Carosello Records, diretto il media digitale Louder. Ha una newsletter chiamata Pucci.