La straniante normalità di una whistleblower nell’America di Trump

Le storie dei e delle whistleblower hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni (e più) di storia del giornalismo e dell’informazione. Reality Winner, whistleblower statunitense, però è stata raccontata e celebrata meno di altri. “Reality”, film di Tina Satter con Sydney Sweeney, racconta quella storia nei suoi aspetti più umani e stranianti. Sullo sfondo, l’America di Trump, appena tornato al potere.

da Quants n. 19 (2025)

La liberazione di Julian Assange, lo scorso giugno, è arrivata quasi all’improvviso, dopo più di un decennio di stasi giudiziaria e umanitaria. Le immagini del fondatore di WikiLeaks libero, insieme a quelle del suo viaggio di ritorno nella sua nativa Australia, hanno in un certo senso decretato anche la fine del decennio dei grandi leak, delle fughe di notizie al centro di alcuni dei maggiori casi giornalistici del decennio scorso: dalle rivelazioni di WikiLeaks stessa rese possibili da Chelsea Manning, a quelle di Snowden sulla sorveglianza di massa, passando per la sequenza di inchieste finanziarie internazionali che sono state condotte sulla base di dataset enormi, a cominciare dai Panama Papers. Negli ultimi dieci anni e più, la figura del whistleblower, un insider che decide di rivelare informazioni di interesse pubblico a fini di denuncia o di segnalazione alla stampa o ad altri organi, è stata più che centrale nelle dinamiche dell’informazione. La storia del whistleblowing è certamente lunga come quella del giornalismo stesso e non è iniziata di certo negli ultimi anni – basti pensare ai casi più storicizzati del giornalismo USA come il Watergate o i Pentagon Papers negli anni Settanta – ma è innegabile che grazie all’influenza della digitalizzazione il fenomeno abbia trovato nuova linfa, ispirando scoop, inchieste e un intero modo nuovo di intendere il giornalismo.

Alcune delle storie umane e giornalistiche al centro di questo mondo sono state ampiamente raccontate: Julian Assange – che non è un whistleblower ma un giornalista – è diventato una figura globale; Edward Snowden è al centro di un documentario, Citizenfour, che ha vinto un Oscar nel 2015 e di un biopic di Oliver Stone; Chelsea Manning è stata raccontata in un altro documentario splendido, XY Chelsea, ha scritto un memoir, ed è diventata un’icona per la comunità LGBTQ+. I e le whistleblower sono, volenti o nolenti, diventati a tutti gli effetti personaggi pubblici nell’ecosistema dell’informazione e dell’attivismo contemporanei. Non tutte queste storie, però, hanno avuto la medesima risonanza. Esistono altre vicende, forse meno globali e forse meno spettacolari, che non sono riuscite a uscire dai circuiti del giornalismo e degli addetti ai lavori. Tra queste, vi è certamente la storia di Reality Winner, ex dipendente dell’intelligence statunitense classe 1991, finita al centro di un caso di whistleblowing nel 2017. Una storia che è raccontata anche nel libro ‘Reality: Lo Stato profondo e la guerra per le informazioni’ di Kerry Howley, pubblicato in italia da NR Edizioni.

Negli ultimi dieci anni e più, la figura del whistleblower, un insider che decide di rivelare informazioni di interesse pubblico a fini di denuncia o di segnalazione alla stampa o ad altri organi, è stata più che centrale nelle dinamiche dell’informazione.

Siamo al centro della prima era Trump e ancora nella scia del Russiagate, il filone giudiziario-giornalistico che all’epoca dei fatti stava cercando di provare i legami tra la campagna Trump e il Cremlino. Fa quasi sorridere tornare a quel momento storico ora che Donald Trump è rientrato alla Casa Bianca, ora che la Russia è impegnata da più di due anni in una sanguinosa invasione dell’Ucraina e ora che le dinamiche della geopolitica internazionale sono state ampiamente riscritte più e più volte. Nel 2017, però, le preoccupazioni dell’opinione pubblica e dei media USA erano focalizzate sulla possibilità che il Cremlino avesse avuto un ruolo diretto nell’elezione di Trump e che le campagne di influenza russe – effettivamente avvenute, nessuno lo nega – fossero però state così pervasive da convincere l’elettorato a votare per Trump. Era un momento storico in cui l’ascesa politica del tycoon di estrema destra era ancora da molti considerata come un incidente malaugurato, il risultato di condizioni straordinarie favorito da forze esterne: la propaganda sui social media, gli hacker russi, WikiLeaks stessa, o Cambridge Analytica. Era un periodo di domande molto difficili per le quali la narrazione pubblica progressista cercava risposte quanto più semplici possibili. Ora che invece abbiamo conferma di quanto Trump sia fortemente ancorato alla cultura americana e allo Zeitgeist contemporaneo, oltre che alle conseguenze dirette del vivere nella fase più delirante della storia del capitalismo globale, guardare indietro a quelle risposte è, come dicevamo, quasi un esercizio satirico. Nel 2017, però, l’analisi dello shock della prima elezione di Trump era per lo più ferma a questi punti.

Il film dura meno di un’ora e mezza ed è basato interamente sui verbali e le registrazioni dell’arresto, ed è la resa cinematografica di Is This a Room, una piece teatrale andata in scena nel 2019, scritta a partire dallo stesso lavoro di ricostruzione dei testi ufficiali.

In quel momento, Reality Winner, texana, fluente in Farsi, Dari, e Pashto, con alle spalle sei anni di carriera nell’esercito e nell’intelligence, e un secondo lavoro come maestra di yoga, lavora come traduttrice per la National Security Agency (NSA) ed è coinvolta in alcuni programmi con i droni, gli aerei senza pilota usati per condurre “attacchi mirati” dagli Usa in Medio Oriente nel contesto della mai conclusa guerra al terrore. Il suo lavoro consiste nel tradurre le intercettazioni condotte in Afghanistan al fine di fornire più elementi di intelligence su cui basare gli attacchi. C’è un film che racconta quello che succede da questo momento in avanti nella vita di Reality Winner e a cominciare dal 3 giugno del 2017, giorno del suo arresto. Il film si intitola Reality ed è stato presentato al Festival di Berlino lo scorso anno per la regia di Tina Satter e Sydney Sweeney come protagonista. Il film racconta l’arresto – e nulla più – di Reality Winner, la visita dell’FBI alla sua casa, e il cringissimo interrogatorio che lo precede. Il film dura meno di un’ora e mezza ed è basato interamente sui verbali e le registrazioni dell’arresto, ed è la resa cinematografica di Is This a Room, una piece teatrale di Satter andata in scena nel 2019, scritta a partire dallo stesso lavoro di ricostruzione dei testi ufficiali.

Nel film non succede nulla: si vedono esclusivamente Winner/Sweeney, due agenti dell’FBI e il cane della whistleblower mentre cercano di comunicare e superare l’imbarazzo che precede le manette. Il film è un capolavoro di small talk e gesti minimi – come chiudere il cane in un recinto del giardino – costruito sui capi di accusa contro Winner. Winner sa perfettamente perché un furgone dell’FBI la sta aspettando sull’uscio di casa e inizialmente cerca di dissimulare, mentendo, il suo ruolo. Dal lato opposto ci suono due agenti dell’FBI quasi stupiti di constatare che la loro ricercata è esattamente Reality Winner, una ragazza dall’apparenza quanto più normale possibile, che appare in superficie più preoccupata per le sorti del suo cane e del suo gatto che di una possibile sentenza per spionaggio.

Nel film non succede nulla: si vedono esclusivamente Winner/Sweeney, due agenti dell’FBI e il cane della whistleblower mentre cercano di comunicare e superare l’imbarazzo che precede le manette.

Quando l’FBI arriva a casa sua ad Alice, in Texas, Winner è già diventata una whistleblower. Qualche settimana prima ha deciso di inoltrare alla testata investigativa The Intercept un documento riservato cui aveva accesso nel perimetro delle sue clearance di sicurezza. Il documento certificava l’esistenza di un vasto attacco cyber condotto dai servizi russi contro cento obiettivi, inclusa un’azienda fornitrice di infrastrutture per il voto e numerosi funzionari pubblici nel 2016, poco prima delle elezioni. L’intento degli attaccanti? Penetrare quanto più possibile a fondo nella macchina delle elezioni presidenziali statunitensi. Il documento in questione, poi verificato e pubblicato dai giornalisti di The Intercept, non dava indicazioni sull’effettiva riuscita dell’attacco, ma ne attestava in modo incontrovertibile l’esistenza. Nella confusione e nel panico morale del Russiagate, si trattava di una delle evidenze più chiare e forse della più concreta delle azioni intraprese dal Cremlino per influenzare i meccanismi democratici americani.

Un capolavoro di small talk e gesti minimi – come chiudere il cane in un recinto del giardino – costruito sui capi di accusa contro Winner.

Winner fu presto individuata – anche The Intercept fece degli errori enormi nel proteggere la sua fonte – accusata di spionaggio, e arrestata ancor prima che venisse pubblicato l’articolo. In Reality tutto questo emerge poco alla volta, mentre gli agenti dell’FBI interrogano la whistleblower sulla porta di casa sua e poi in una stanza in disuso dell’abitazione. Poco alla volta, Reality Winner crolla e finisce per confessare, come se poco alla volta iniziasse anche a intendere la portata delle sue azioni. «Non stavo cercando di essere Snowden o nulla di simile», dice Winner agli agenti quando capisce di essere effettivamente in guai seri. Il film procede come una spirale discendente ed è interessante seguirne la parabola mentre testimonia uno degli esempi più banali di small talk mai apparsi al cinema diventare poco alla volta un’imputazione per spionaggio. Non succede letteralmente nulla, eppure il film toglie il fiato, mentre soffoca Reality Winner in una realtà che la porterà a essere la prima whistleblower a essere indagata e condannata dalla prima amministrazione Trump. Nel 2018 sarà condannata a cinque anni di reclusione; uscirà nel 2021 come premio per una “condotta eccellente”.

Novanta minuti che spiegano la straniante normalità di persone che prendono decisioni straordinarie in circostanze altrettanto straordinarie.

Si è scritto poco di Reality Winner rispetto a quanto è stato detto di altri e altre whisleblower. Si è saputo meno sul suo conto, sul suo sistema di pensiero, sulle sue ragioni. A lungo Winner è stata descritta come una persona poco consapevole dei suoi atti, forse persino sprovveduta, poco “politica”. Dopo il rilascio, Winner ha invece iniziato a emergere in modo più chiaro tramite interviste e dichiarazioni alla stampa, spiegando di aver fatto ciò che ha fatto in piena consapevolezza, perché gli americani non erano informati a sufficienza sulla reale portata delle interferenze russe nelle elezioni del 2016. In questo, Reality Winner non ha alcuna differenza con Chelsea Manning o Edward Snowden. Dopo qualche apparizione sui media, Winner è uscita di scena. Sul suo profilo Instagram oggi si definisce «Just a CrossFit coach and a dog mom. And cat mom. And horse mom» e pubblica esclusivamente video di allenamenti in palestra e foto di animali. Non ci sono basi militari, droni o militanti talebani. Non c’è alcun riferimento a quei novanta minuti decisivi che Reality invece racconta, novanta minuti che spiegano la straniante normalità di persone che prendono decisioni straordinarie in circostanze altrettanto straordinarie, finendo in carcere per sostenere il giornalismo e la democrazia, spesso quasi per caso. Rispondendo a una giornalista del New York Times nel 2022 che le chiedeva perché avesse passato quei documenti ai giornalisti, Winner ha fatto riferimento alle bugie di Trump rispetto alle interferenze russe che venivano in continuazione rimbalzate dai media statunitensi. Qualcosa, invece, era effettivamente successo, ed era dimostrabile. «Andiamo, c’eri anche tu», dice Reality Winner, «ti ricorderai com’era allora, erano tempi strani».

Donald Trump ha vinto di nuovo le elezioni USA, dopo mesi di minacce esplicite alla stampa e ai media e altre esternazioni ai limiti dell’autoritarismo. Sono ancora tempi strani, e persino più feroci. Reality è un film che testimonia la tremenda banalità di storie di resistenza come quelle di Reality Winner, il cui valore politico emerge forse dai gangli più umani e banali di queste narrazioni. Storie che emergeranno ancora negli anni a venire, e che sarà importante raccontare come meritano.

Accademico e giornalista, lavora presso la School of Humanities and Social Sciences dell’Università di San Gallo, Svizzera. Qui fa ricerca e insegna nell’ambito del giornalismo di inchiesta, del rapporto tra informazione e hacking e degli studi critici sull’intelligenza artificiale. Scrive per diverse testate ed è autore di Overnight su Radio Raheem.